Il documentario americano All the Beauty and the Bloodshell di Laura Poitras (nella foto) ha ricevuto il Leone d’Oro della 79esima Mostra del Cinema di Venezia (31 agosto–10 settembre). Nella lunga storia del prestigioso premio, iniziata nel 1946 con la vittoria de L’uomo del sud di Jean Renoir, solo un altro documentario se l’era aggiudicato, Sacro Gra di Gianfranco Rosi nel 2013. Per quanto riguarda la Palma d’oro di Cannes era successo solo nel 2004 con Fahrenheit 9/11 di Michael Moore, che ha un po’ aperto la strada alla nuova era del cinema non di finzione. Non che in precedenza non se ne realizzassero di molto belli, ma la differenza era più netta e i concorsi dei grandi festival erano per lo più riservati ai film a soggetto. Il digitale ha aperto nuove opportunità al documentario, abbassando i costi e aumentando di molto la produzione, di tutte le durate e tutti i generi. Non contano più solo il contenuto, anche se per molti spettatori documentario resta sinonimo di opera didascalica e noiosa, ma anche la forma cinematografica: un esempio è Leviathan di Lucien Castaing-Taylor e Véréna Paravel, presentato a Locarno nel 2012. Oggi documentario significa tante cose diverse, esso non ha solo una destinazione televisiva, spesso arriva in sala, e la Svizzera in questo è un esempio virtuoso nel panorama europeo.
Naturalmente ogni novità tende a trasformarsi in moda con effetti anche deleteri. E purtroppo i due campi del cinema restano troppo separati, da una parte il mondo della finzione guarda spesso con superiorità ai colleghi documentaristi che invece si sentono figli di un dio minore e confinati in una riserva. Così un premio tanto importante sembra farsi portavoce di un intero settore e interpretato come una rivincita. All the Beauty and the Bloodshell, l’unico non di fiction tra i 23 film in lizza per il Leone, è stato trattato alla pari degli altri e pare abbia vinto per una caratteristica solitamente propria della finzione: ha fatto commuovere i giurati, o almeno la presidente Julianne Moore.
Non mancavano i temi forti nel lavoro della regista americana già premio Oscar per Citizenfour nel 2015, ma nella storia della fotografa Nan Goldin – il suo drammatico passato familiare, le sue amicizie e la sua battaglia contro la famiglia di imprenditori farmaceutici Sackler, rei di aver commercializzato un oppiaceo nascondendo che creasse dipendenza – la giuria ha apprezzato qualcosa in più. Nessuno aveva ipotizzato la vittoria di Laura Poitras, si pensava magari un premio secondario, e il Leone va un po’ oltre i suoi meriti. Il voler costringere almeno tre linee narrative dentro un’unica opera cercando di dare a tutte lo stesso rilievo è il limite di questo film. Ad esempio alla parte della protesta, sia nella vita della Goldin sia in generale come monito alle multinazionali, viene dato troppo spazio.
E se prima di Venezia la Poitras poteva puntare all’Oscar bis quale migliore documentario, dopo il passaggio alla Mostra potrebbe ambire a entrare almeno in nomination nella categoria di maggior peso, quella di miglior film, proseguendo la tradizione recente dei film veneziani (vedi Joker o Nomadland).
Il resto del palmarès ha riunito quasi tutti i migliori film visti nei dieci giorni di festival, con qualche esclusione eccellente (The Whale di Darren Aronofsky, Argentina 1985 di Santiago Mitre e Blonde di Andrew Dominik) ma senza decisioni insensate.
Il bilancio della 79esima edizione è positivo ma non esaltante. Da alcuni anni ormai si sente dire che quella attuale sia l’edizione migliore, a volte già all’annuncio del programma in luglio. Senza lasciarsi tentare da facili proclami assoluti, è importante avere una visione d’insieme e al contempo di dettaglio della programmazione: tener conto dei criteri di valutazione, delle aspettative che si hanno e dei film che si vedono, dentro un programma vastissimo che, tra tutte le sezioni, sta intorno ai 150 titoli.
Una programmazione che tende sempre più al mainstream con una forte presenza del cinema americano, francese, inglese e, naturalmente, italiano: insieme le quattro nazioni componevano circa i tre quarti della competizione ufficiale. Più nomi noti e più film che usciranno nelle sale possono allettare qualcuno, ma riducono gli spazi di ricerca e di scoperta: aumentano i film di discreta confezione e diminuiscono le opere magari imperfette, ma più innovative e stimolanti.
Il concorso ha alternato bei film, alcuni premiati (Bones and All di Luca Guadagnino, Leone d’argento per la regia, o l’irlandese Gli spiriti dell’isola di Martin McDonagh che ha ricevuto il premio per la sceneggiatura e la Coppa Volpi di miglior attore per Colin Farrell), a vere delusioni, come Bardo di Alejandro Inarritu, The Eternal Daughter di Joanna Hogg con Tilda Swinton che si divide inutilmente in due ruoli, i fiacchi L’immensità di Emanuele Crialese e Il signore delle formiche di Gianni Amelio o l’impalpabile Chiara di Susanna Nicchiarelli che fa diventare Chiara e Francesco d’Assisi due hippy medievali.
Meritata la Coppa Volpi a Cate Blanchett come migliore attrice per Tàr di Todd Fields, altra pellicola già in prima fila per l’Oscar, nel ruolo cucito su misura per lei di un’affermata direttrice d’orchestra carismatica e di grandi intuizioni, ma dalla condotta personale forse discutibile.
Doppio premio per la rivelazione del concorso, Saint Omer della francese Alice Diop (documentarista di lungo corso al primo film di finzione), che ha ricevuto il Leone d’argento Gran premio della giuria e il Leone del futuro come migliore opera prima. Una scrittrice assiste al processo contro una donna immigrata che ha ucciso il figlio piccolo per un film stratificato con interrogatori di grande intensità e un’analisi profonda della società odierna.
Premio speciale della giuria a No Bears dell’iraniano Jafar Panahi, già Leone d’oro nel 2000 con Il cerchio, che ha girato in clandestinità un film insieme toccante e metaforico sull’Iran di oggi, sulla privazione della libertà, sulle paure indotte e sul controllo sociale. Un gran film degno del suo maestro Abbas Kiarostami.
Sul confine che può diventare labile tra realtà e finzione, va menzionato Vera, il bel film italo-austriaco di Tizza Covi e Rainer Frimmel, premiato nella sezione collaterale Orizzonti per la miglior regia e la migliore attrice Vera Gemma. Figlia d’arte di Giuliano, interpreta sé stessa in un’opera ironica e profonda che cala persone reali in una trama di finzione (un po’ come Gigi la legge di Alessandro Comodin, premiato un mese fa al Festival di Locarno). Un modo per confrontarsi con la figura e il mito paterno per un personaggio sfaccettato che duetta in modo irresistibile con l’amica Asia Argento sulla tomba del figlio di Goethe.