Turarsi il naso

La teoria del voto utile affonda le proprie radici nella Roma antica
/ 03.10.2022
di Elio Marinoni

Le elezioni politiche italiane del 25 settembre scorso si sono concluse con una netta vittoria (peraltro annunciata) della coalizione di centro-destra, che ha ottenuto il 44% dei voti sia alla Camera sia al Senato e, grazie anche alla complessa e cervellotica legge elettorale nota come Rosatellum, la maggioranza assoluta dei seggi in entrambe le camere. Particolarmente eclatante è stata l’affermazione di Fratelli d’Italia, che ha conquistato il 26% dei suffragi, ossia tanti voti quanti l’intera coalizione di centro-sinistra, il cui partito principale (il Partito Democratico) si è fermato al 19%.

Proprio per evitare questo scenario, durante la campagna elettorale la dirigenza del PD aveva fatto ripetutamente appello alla teoria del «voto utile» allo scopo di evitare la dispersione dei suffragi di orientamento progressista a favore di questo o quel partitello. Analogamente, di fronte alla concreta prospettiva di un dilagare della coalizione di centro-destra, la cui politica estera e la cui politica economica potrebbero rimettere in discussione da un lato l’attuale collocazione europeistica della Repubblica italiana e dall’altro il cosiddetto PNRR (piano nazionale di ripresa e resilienza), finanziato dall’UE e faticosamente elaborato (ma non ultimato) dal governo Draghi, alcuni intellettuali e politici, pur esprimendo forti riserve nei confronti della linea politica portata avanti da Enrico Letta, segretario del PD, avevano invitato l’elettorato a votare quel partito «turandosi il naso» (ossia a scegliere quello che si ritiene il meno peggio o il male minore), riesumando la colorita espressione con cui Indro Montanelli nel 1976 invitò gli Italiani a dare il proprio sostegno alla Democrazia Cristiana, allora partito di maggioranza relativa, per impedire che andassero al potere i comunisti, da lui fieramente avversati.

L’appello di politici e intellettuali non sembra tuttavia essere stato accolto. Eppure un comportamento di questo tipo (scegliere quello che si ritiene il male minore per evitare guai peggiori o presunti tali) trova un precedente addirittura nella storia di Roma antica.

Siamo nell’estate del 64 a.C.: alle elezioni consolari per il 63 a.C. risultano eletti Marco Tullio Cicerone e Gaio Antonio Ibrida, mentre subisce una nuova sconfitta il candidato dei populares (il «partito democratico»), Lucio Sergio Catilina. L’elezione di Cicerone, un homo novus (potremmo dire: un outsider) originario di Arpino (una località del Lazio meridionale), è il frutto di un’ampia coalizione da lui abilmente coagulata attorno al proprio nome ingigantendo ad arte i timori di una deriva estremista nel caso in cui Catilina, il patrizio decaduto, fosse risultato eletto.

La stessa strategia del male minore sarà messa in pratica e lucidamente difesa da Cicerone, tra il 61 e il 60 a.C., di fronte a un caso di corruzione di giudici appartenenti all’ordine equestre (cioè al ceto imprenditoriale e finanziario di cui facevano parte i pubblicani, appaltatori privati dell’esazione delle imposte e dell’esecuzione di lavori pubblici), la cui alleanza con i senatori era ritenuta fondamentale dall’oratore. In due lettere indirizzate all’amico Attico, Cicerone informa dapprima di avere fatto pressioni sul senato, di cui era membro autorevole, per evitare l’apertura di un’inchiesta a carico dei giudici corrotti; successivamente, che l’inchiesta era stata infine approvata grazie soprattutto alle insistenze di Marco Porcio Catone, bisnipote del Censore e altrettanto inflessibile. Questi, nel suo massimalismo, non sapeva distinguere – afferma Cicerone – tra le idealità politiche e le concrete contingenze in cui ci si trovava allora a operare, che erano quelle di una repubblica agonizzante e di una classe dirigente degenerata («Non si può trovare un politico di vaglia nemmeno per sogno», scrive sconsolatamente ad Attico in un’altra lettera dello stesso periodo: Lettere ad Attico, I, 18, 6). Ecco come si esprime Cicerone dando prova di una spregiudicata Realpolitik: «il nostro amico Catone, con le migliori intenzioni ed assoluta lealtà, talvolta nuoce allo stato; espone infatti la sua opinione come se ci trovassimo nella Repubblica di Platone, non nella feccia romulea». E aggiunge: «C'è qualcosa di più giusto del rinviare a giudizio chi ha ricevuto denaro per accomodare una sentenza? Catone lo ha sostenuto e il senato lo ha approvato; i cavalieri hanno fatto guerra al senato, non a me: io infatti ho dissentito. C'è qualcosa di più impudente dell'opposizione dei pubblicani? Eppure, per mantenere alleato l'ordine equestre, si doveva accettare lo scapito.» All’immaginaria obiezione di Attico: «E allora dovremo mantenerli alleati comprandoli col denaro?» Cicerone risponde: “Che fare, se con altri mezzi non possiamo? Dobbiamo forse diventare schiavi dei liberti o addirittura degli schiavi?” (Cicerone, Lettere ad Attico, II, 1, 7-8).

Furono certamente lettere come questa a ispirare a Friedrich Engels la seguente riflessione, che leggiamo in una lettera a Marx del 17 marzo 1851: «mi sono preso le lettere di Cicerone […]. Una chronique scandaleuse molto divertente. Cicerone è veramente impagabile […]. I benpensanti da che mondo è mondo non possono esibire una canaglia migliore di questo tipo»(Carteggio Marx-Engels, I, trad. it. di Mario Alighiero Manacorda, I, Edizioni Rinascita, Roma 1950, p. 202)