Dopo l’avventura primaverile con il Lugano Dance Project, la conferma che il pubblico della nostra regione nutre un certo appetito per la danza di qualità si dimostra soprattutto quando si rinnova l’appuntamento con il FIT, il Festival Internazionale del Teatro e della scena contemporanea. Giunta alla sua 31esima edizione, la manifestazione luganese riempie le sale del LAC e del Foce con un programma ricco snocciolando le produzioni migliori e più interessanti. Dopo le cinque ultime edizioni dedicate ad approfondimenti sulla drammaturgia orientata sul vivere contemporaneo, la direzione artistica del FIT ha deciso di avviare una serie di riflessioni sulle scritture femminili lasciando parlare una lingua/donna. Intendendo così avviare un processo necessario per cercare di rispondere alle molte domande che ancora emergono dalla scena contemporanea.
Prende così forma uno scenario che rispecchia l’immagine di una società dove l’assenza di artiste o, come spiega Paola Tripoli nel suo editoriale, l’assenza della loro visibilità non è un fenomeno recente. Soprattutto quando l’arte è colma di assenze o di nebbiose o invisibili presenze. D’altronde non è un caso, come fa ancora notare la Tripoli, che quest’anno la Biennale di Venezia, a firma di Cecilia Alemani, abbia sentito il bisogno di una fortissima predominanza femminile. Ma non è una tendenza modaiola o un post-femminismo di maniera, bensì è il riflesso di una realtà che deve ancora consolidare l’inclusione della donna a fronte di una società in cui è ancora evidente lo squilibrio con l’universo maschile.
Mentre andiamo in pagina il Festival sta proseguendo nella proposta degli spettacoli in programma fra i quali abbiamo scelto soprattutto quelli incentrati sulla danza contemporanea. Tutte produzioni che, in un certo senso, stanno lasciando un segno. A partire da Chasing A Ghost (inseguendo un fantasma) di Alexandra Bachzetsis, un progetto del 2019 che ben riassume lo stile delle sue ricerche che poi sfociano nella coreografia. Per i suoi lavori, l’artista zurighese di origini greche trae ispirazione da colti approfondimenti interdisciplinari: dalla musica alla letteratura, dalla cultura popolare alla musica, alle arti plastiche e visive fino all’architettura, la fotografia e il cinema. È forse la produzione, fra le molte, che meglio ha raccontato il processo di una ricerca artistica che oltre a mettere in campo diverse materie si traduce in un discorso chiaro e coerente. In scena cinque danzatori, compresa la Bachzetsis, due pianoforti a coda, uno schermo su un lato della scena e una telecamera sull’altro. Una scacchiera artistica per raccontare una decina di brevi scene in cui esplora il tema del doppio farcito di citazioni in cui prevale il primato femminile sul corpo-oggetto maschile.
Su un versante ancora più esplicito, si pone la scrittura ribelle della giovane coreografa francese Tatiana Julien, autrice di Interscribo/Uprising (Rivolta), uno strepitoso assolo per Violette Wanty, artista multidisciplinare che ha stregato la platea con un emozionante turbinìo di immagini danzate con indomabile potenza fisica. Un messaggio di rabbia narrativa imbastito dalla Julien contro il regime dell’intrattenimento attraverso i linguaggi della danza urbana fino a interrogarsi sul senso dell’arte citando ampi stralci da L’homme révolté di Albert Camus.
Vogliamo anche ricordare il ritorno al FIT di Ruth Childs con Blast! (Raffica), la narrazione di un incubo. Tre quadri dove emerge la scuola coreografica della performance svizzera-americana, una somma di gesti, suoni e perfette coordinazioni del corpo, la cifra stilistica della sua architettura compositiva.
Le ultime righe le dedichiamo a Love Me, di Marina Otero, protagonista della scena alternativa argentina. Seduta e silenziosa, dietro di lei si proiettano le parole di una confessione. Un teatro dell’assenza, impegnativo, dove dolore e perdono si confondono in una danza consolatoria. Alibi inutile. Meglio il silenzio.