Édouard Manet è un artista ambivalente. Difficile associarlo subito a un dipinto preciso. Certo non mancano i quadri scandalo; ma Monet ricorda le ninfee, Degas le ballerine, Renoir le belle donne nude e sensuali, Cézanne le nature morte con le mele, Pissarro i paesaggi… Per Manet non si riesce a farlo, scrive Akiya Takahashi, direttrice del Mitsubishi Ichigokan Museum di Tokyo. Gli artisti precedenti mostrano una grande coerenza di contenuti e soggetti e ciascuno «rivela un tocco personale e uniforme». Nella pittura moderna, ma ancor di più in quella contemporanea, essere facilmente riconoscibili è una strategia commerciale e di marketing che tutti conoscono e utilizzano. E questo vale non solo per l’arte…
In alcuni casi il cambiamento di stile corrisponde al desiderio di seguire le ultime tendenze; ma anche qui si tratta di marketing. Per Manet, al contrario, siamo in presenza di quella che Takahashi chiama polisemia. La sue pennellate sono violente, eleganti, poetiche, lievi, ma sempre non prevedibili. Insomma, un artista inclassificabile come ha scritto Françoise Cachin, direttrice del Musée d’Orsay, nel 1983 in occasione della retrospettiva dedicata all’artista a Parigi e a New York.
Un pittore eclettico; probabilmente il primo dei moderni. A lui sono state dedicate innumerevoli mostre, da quella citata del 1983 in occasione del centenario della morte a quella del Mitsubishi Ichigokan Museum di Tokyo del 2010, a quella veneziana del 2013 dedicata al confronto fra l’Olympia di Manet e la Venere di Urbino di Tiziano. Sì, perché Manet saccheggiava l’arte del passato e soprattutto la citava, partendo appunto da Tiziano e passando per Velàzquez e Goya.
Ora è la volta di Milano che a Palazzo Reale propone una mostra – organizzata da MondoMostre Skira in collaborazione con il Musée d’Orsay – incentrata sulla sua città: Parigi, quella moderna di fine Ottocento. Avrebbe dovuto tenersi alla Galleria civica d’arte moderna e contemporanea di Torino a conclusione di un percorso di collaborazione con il museo parigino che aveva visto precedentemente realizzare quelle di Degas nel 2012, Renoir nel 2013 e di Monet nel 2015. Con la nuova sindaca 5 stelle Torino ha perso quest’occasione…
Parigi, dicevamo. Manet vive quell’esaltante avventura che è stata la riqualificazione della città da parte del Barone Georges-Eugène Haussmann nominato prefetto della Senna nel 1853 da Napoleone III. È un periodaccio fra colpi di stato, barricate, tribunali speciali, deportazioni in Algeria. Nel 1852 Luigi Napoleone si fa proclamare Napoleone III. Napoleone il piccolo, secondo Victor Hugo. Haussmann è il viceimperatore. Sventra la città per abbellirla, ingrandirla, sanarla dal putridume maleodorante di alcune zone. Un personaggio energico, testardo, astuto – sciocco e meschino per altri – che ridisegna il profilo di Parigi con enormi rettilinei, i famosi boulevard, che servono alla nuova borghesia per costruire ai lati le loro ville magnifiche ma anche per impedire la costruzione delle barricate, tanto temute dai Re e dagli Imperatori, nei dedali delle viuzze.
Dal 1856 i lavoratori emigrano nelle periferie e sorgono i grandi magazzini, come il Bon Marché, i caffè, le brasserie, i giardini pubblici e i teatri. La Repubblica conta i suo fedeli. Napoleone il piccolo offre all’esule Hugo l’amnistia. Lui rifiuta: «Se rimangono dieci repubblicani, sarò il decimo. Se ne rimane uno solo, sarò io». Il 1871 è l’anno della Comune: quel «gran sole carico d’amore» cantato da Rimbaud che sputa contro i vincitori «sifilitici, folli, re, burattini, ventriloqui». Tra il 1851 e il 1900 a Parigi vengono costruiti ogni anno 1240 nuovi edifici e sino alla fine degli anni Ottanta ha «l’aspetto di un cantiere a cielo aperto». La città diventa frenetica; ci si riversa nei grandi marciapiedi a parlottare, nei ristoranti, nei caffè-concerto.
Manet fa parte dell’alta borghesia parigina. Elegante, raffinato, un po’ dandy, si trova a proprio agio all’Opéra come fra le cortigiane (così si chiamavano le prostitute d’alto bordo). D’altronde aveva una debolezza per il gentil sesso. Giuseppe De Nittis racconta che un giorno «Stava seguendo una giovane dalla figura sottile e aggraziata. La moglie tutto a un tratto lo raggiunse e gli disse ridendo di cuore: “questa volta ti ho beccato!”. Ma guarda un po’, rispose lui, pensavo proprio fossi tu».
Appena trentenne fa subito scandalo con due dipinti: Olympia, che rappresenta una giovane sedicenne nuda e sfrontata che ti guarda dritto negli occhi, e Le déjeuner sur l’herbe, tela irriverente con quella donna nuda fra uomini vestiti in mezzo all’erba. Ma Manet è un artista parigino, fino al midollo, e i suoi dipinti ritraggono la vita e l’ambiente di quegli anni in fermento. Un artista moderno interessato più che ai luoghi e all’architettura agli umili che definisce gli «eroi moderni».
La mostra milanese è divisa per argomenti. Inizia con i suoi amici: Émile Zola, ritratto con un libro in mano e sullo sfondo una copia di quell’Olympia che lui definisce la «figlia del nostro tempo, che incontrate sui marciapiedi, con le spalle strette in uno scialletto di lana stinta», poi Stéphane Mallarmé che lo elogia in numerosi articoli, Berthe Morisot, pittrice, cognata e forse amante dell’artista. Segue l’influenza degli artisti spagnoli come si evince dal Combattimento di tori del 1865 e dal famoso Pifferaio dell’anno seguente.
Ma come dicevamo Manet si interessa, oltre che al progresso della nuova città anche alle «fatiche e alle lacrime degli ultimi» rappresentando uno accanto all’altro, ma senza vedersi, il borghese e l’operaio. Poi il mondo femminile, tanto amato e presente nelle sue opere. Figure distanti, assorte nei propri pensieri che non guardano altro che nel vuoto oltre se stesse come ne Il balcone del 1868 nel quale la giovane in primo piano, sempre Berthe Morisot, sembra immersa sola nei propri pensieri.
Manet muore a 51 anni nel 1883 dopo l’amputazione della gamba sinistra. Soffriva da anni di atassia locomotoria di origine sifilitica.
La mostra comprende un centinaio di opere tra le quali 16 di Manet e le altre di artisti coevi come Boldini, Cézanne, Degas, Monet, Renoir o Signac. Buona l’illuminazione dello studio Balestrieri tendente all’eliminazione dei consueti abbagliamenti e riflessi tramite sorgenti alogene a varie fasce d’apertura e sorgenti LED ad apertura media per la luce calda. Allestimento con colori, tratti dalla tavolozza di Manet, come l’azzurro polvere o rossi cangianti per gli ambienti dedicati all’Opéra Garnier con i suoi balli fastosi.