«und wenn janco/nicht malte/ wie er malt/ so möchte ich/ dass er male wie er malt./janco malt/für den gewaltigsten luftkurort/nämlich/für die erde./janco malt/unterirdisches grunzen und irdisches singen…/marcel janco/malt nicht die welt/um sie zu vervielfältigen/sondern/weil es ihm freude bereitet».
«E se Janco non dipingesse come dipinge, allora vorrei che dipingesse come dipinge. Janco dipinge per la più potente stazione climatica e cioè per la terra. Janco dipinge smorfie sotterranee e canti terreni. Marcel Janco non dipinge il mondo per moltiplicarlo, dipinge perché gli procura gioia».
Questa poesia che Jean Arp dedica al pittore rumeno Marcel Janco è uno dei testi che animano la mostra in corso alla Fondazione Marguerite Arp. E se c’è un elemento ricorrente che negli allestimenti curati dalla direttrice Simona Martinoli è intenso e affascinante, questo è il dialogo costante, la commistione profonda tra gli scritti e le opere, tra le tracce di vita vissuta e quelle creative, artistiche, tra la poesia e la materia. Tutto insieme ci racconta pezzi di esistenza, si fa narrazione poetica di legami e scambi che nutrono, arricchiscono, ispirano e creano. Proprio come il sodalizio tra Jean Arp e Marcel Janco, con il quale il primo condivide la nascita del movimento Dada. È lui che nell’aprile del 1960 introduce Arp e sua moglie Marguerite Arp-Hagenbach nel suo villaggio artistico di Ein Hod vicino a Haifa. Una realtà che Janco ha fondato nel 1953 per portare in questo luogo l’arte nuova e le arti applicate. «Come ex artista dadaista – racconta la curatrice – voleva dare il suo contributo a questa terra in cui – si era reso conto – non c’era la presenza dell’arte moderna. Così, in questo villaggio ha creato degli atelier in cui lavorare la ceramica, l’argento, creare opere tessili, grafiche. L’incontro con questa realtà ha ispirato profondamente Jean Arp che in seguito ha iniziato a creare opere con dei materiali nuovi».
Un esempio ci è dato dalla grande ceramica che abbiamo scelto di mostrarvi, La Belle aux seins; Vénus d’Ein Hod, un rilievo in ceramica realizzato nel 1960 e ispirato all’incontro a Ein Hod con la ceramista Aviva Margalit Mambush. «Questo, insieme a Il profeta, che è esposto accanto, alla sua sinistra, piaceva molto a Jean e a Marguerite che dal 1960 li tenevano appesi nell’atrio della loro casa atelier. Arp prese spunto da un libro di poesie di Tristan Tzara, De nos oiseaux (1929), per il quale aveva realizzato dei disegni a china. Ne scelse due per poi trasporli nei rilievi in ceramica» racconta Simona Martinoli. La chicca, anche in questo caso, è quella di «poter seguire passo passo il processo creativo grazie alla corrispondenza conservata nel nostro archivio. Veniamo a conoscenza delle riflessioni attorno alla realizzazione: Arp non voleva che la sua opera fosse costituita da un unico elemento, ma da più pezzi in una composizione che riprendesse il tema della simmetria, una simmetria non perfetta, come già nei disegni per Tzara».
Incuriosita dalle parole della curatrice mi avvicino a guardare la Venere di Ein Hod e in effetti scorgo questi elementi di disturbo, queste linee di rottura che da lontano non si percepiscono, non rovinano affatto il senso simmetrico dell’opera ma ci sono. Interessante e d’effetto anche questo gioco di colori e toni tra lucido e matt, opaco. «Ai tempi, per la realizzazione, Arp si era fatto mandare le piastrelle da Isreale e le aveva fatte montare su un supporto di cemento qui in Svizzera».
Camminando tra le varie opere si ha come l’impressione di essere parte del dialogo e delle connessioni che in sala si creano tra i testi e le opere. Qui, vicino ai rilievi in ceramica, in prossimità della grande finestra che dona respiro e luce alla sala, la relazione con il tavolo basso in ceramica è forte e immediato e a più livelli. Le tante tessere di ceramica colorata che lo compongono sono ognuna portatrice di significato, segni, ricordi, e rimandi. Nella tessera blu scuro leggiamo «Cabaret Voltaire 1915», in quella giallo senape «Ein Hod», in un’altra azzurra «Klee, Picasso», in un’altra ancora il nome di «Marguerite». In mostra c’è una bella foto che immortala il momento in cui Janco fa dono del tavolino a Jean e Marguerite. C’è anche la lettera di ringraziamento in cui lei scrive al pittore rumeno: «Il tavolino si troverà bene circondato dalle opere del periodo Dada e dei dadaisti di oggi».
La mostra mette l’accento sulla loro amicizia e nel farlo rende anche testimonianza di tempi in cui i rapporti e le relazioni umane correvano su altri binari da quelli di oggi. Ad esempio attraverso le lettere che erano una forma intima e sentita di dialogare e confrontarsi con l’altro – con garbo, eleganza e cultura – che oggi non esiste più. C’era una cura umana dell’altro ma anche una mentalità, un certo modo di intendere la cultura e l’essere artisti che oggi sembra venuto meno. «Abbiamo un carteggio molto nutrito tra Arp, Marguerite e Janco che ci racconta della loro amicizia profonda ma anche di tutti i loro importanti scambi sulle opere. Grazie a questo carteggio – spiega la curatrice – è stato possibile ricostruire come Arp sia arrivato a realizzare da un lato le opere in ceramica, dall’altro i gioielli ma anche come – spinto dalla profonda stima per la sua arte – non perdesse occasione per presentarlo ai galleristi e ai collezionisti».
I gioielli in argento esposti in una teca come vere e proprie opere d’arte, molto amati da Marguerite (nelle foto vediamo come spesso indossasse la creazione Tête bouteille, 1960) e ispirati ad Arp dalla conoscenza dell’orafo israeliano Johanaan Peter, testimoniano ancora una volta l’influsso che il viaggio culturale in Terra Santa nell’aprile del 1960 aveva avuto sui due coniugi. Guidati nel loro percorso di scoperta dallo storico dell’arte Robert Stoll, prima di approdare a Ein Hod erano stati al Cairo, a Giza per la classica visita alle piramidi e alla Sfinge per poi spostarsi a Gerusalemme. Un viaggio potente alla volta dell’Oriente che la parete centrale della sala espositiva ben comunica nella sua intensità di colore vicino a un rosso terracotta su cui risalta la foto in bianco e nero di grandi dimensioni che ritrae un piccolo Jean Arp con il suo taccuino ai piedi della grande sfinge. Lui con lo sguardo rivolto a sud, lei con lo sguardo rivolto a nord, come se si fossero messi d’accordo, come se tra loro ci fosse una sorta di conoscenza intima e di reciproca fiducia; come se fossero fatti della stessa sostanza.
«Prima di allora l’Egitto – come riferimento culturale – era sempre stato presente nella sua opera letteraria e artistica ma Arp lo conosceva solo attraverso le letture». In mostra c’è un piccolo gruppo di sculture in bronzo realizzate tra la fine degli anni 30 e l’inizio degli anni 40 che hanno queste forme un po’ tubolari, molto sinuose. Tra loro colpisce la Piccola sfinge (1942): «Sono tutte opere plastiche che fanno parte dell’universo onirico e fantastico di Arp – ricorda Simona Martinoli. Quello che lui vedeva nella sua immaginazione era tanto importante quanto la realtà».