Tra le pieghe della storia

Ne Il buio tra le montagne il grigionese Silvio Huonder riesce a creare un delicato equilibrio tra l’ambientazione storica e l’evoluzione della trama
/ 03.07.2017
di Pietro Montorfani

«Io leggo soltanto cose vere!». Non senza una malcelata fierezza, mio nonno mi ha ripetuto per anni questa frase. Un modo come un altro per contrastare il dilagare incontrollato di romanzi sugli scaffali di casa, di nipoti con velleità poetiche, di scritti che nulla avessero a che spartire con le scienze dure. Leggeva manuali di elettrotecnica, resoconti del «caso Oppenheimer» (il celebre fisico americano con scrupoli di coscienza attorno all’atomica) e si concedeva ogni tanto un’unica eccezione, sempre quella, per rileggersi La grande crevasse della guida alpina Roger Frison-Roche, storia di amori e montagne nella Francia del primo dopoguerra, rigorosamente in lingua originale.

Ripenso alla boutade del nonno sulle «cose vere» ogni volta che mi capita tra le mani un cosiddetto romanzo storico. Che cosa sia vero, che cosa sia reale (cioè «storico» nell’accezione più estesa del termine) è una di quelle domande da far tremare le vene e i polsi a qualunque scrittore e, di rimbalzo, a qualunque lettore non distratto. La risposta è sfuggente e sfaccettata, come a voler definire l’essenza della vita stessa e del suo depositarsi misterioso sulla carta: non per nulla ci hanno provato giganti della penna e del pensiero, da Aristotele a Michail Bachtin, passando per Dante, Tasso, Manzoni, quest’ultimo giustamente ricordato da Fabio Pusterla in apertura della sua lucida prefazione al romanzo di Huonder.

Il buio tra le montagne è, me lo si conceda, un signor libro. Innanzitutto perché evita due pericoli che sempre stanno in agguato quando si tratti di romanzi storici costruiti ‒ da Il nome della rosa in giù (1980) ‒ attorno a indagini di natura poliziesca: l’eccesso di pessimismo (dato che al mondo tutto è male, non possiamo che discorrere del male, gioendo magari dei dettagli) e l’eccesso di ottimismo (l’intelligenza del detective e quella del suo autore spiegano placidamente tutti gli arcani, in un’unica grande visione «poliziesca» dell’esistenza umana). Non so se, come si ripete spesso, dopo La promessa di Dürrenmatt non sia più possibile scrivere romanzi gialli, soprattutto in Svizzera; probabilmente è soltanto una vuota frase ad effetto come quella di Adorno sulla poesia dopo Auschwitz (giusto lo scrupolo, ma, a conti fatti, verrebbe piuttosto da replicare il commento di Fantozzi sulla Corrazzata Potëmkin...).

Fatto sta, Silvio Hounder ha scritto un romanzo storico e un romanzo giallo, dosando con grande sensibilità entrambi questi elementi, senza eccedere nel dato storico – i Grigioni del 1821, l’Europa postnapoleonica, uno Stato e una società ancora in gran parte da costruire – e senza affidare la narrazione ai soliti quattro trucchi del «chissà come andrà a finire». Sullo sfondo si stagliano le montagne e il buio del titolo, reali e al contempo metaforici, immagini del paesaggio e dell’anima, resi assai bene in italiano dalla professionalità della traduttrice Gabriella de’ Grandi, anche laddove la scrittura si fa più colorita e barocca: «Luzius Locher unì i forti polpastrelli, pollice con pollice, indice con indice, e le sue manone formarono una grossa gabbia tonda in cui guardò dentro come l’indovina nella sfera di cristallo, poi disse con parole misurate:  “È come ha riferito il garzone. Il tirolese Franziskus Rimmel ha ucciso le serve e il mugnaio. Abbiamo trovato la sua scure imbrattata del sangue delle vittime”. Il landamano aprì la gabbia e ne lasciò uscire la tetra profezia come una falena, mostrò le mani vuote e non aggiunse altro» (p. 97). Un’immagine stupenda, quasi teatrale, che ricorda la principale attività di Huonder, autore per il palcoscenico attivo in Germania già da molti anni.

I lettori (e gli storici) più pignoli potrebbero forse trovare, tra le righe di questo libro, il giudizio implicito e sostanzialmente impietoso di chi guardi al passato, e ai suoi tempi più bui, dalla specola privilegiata della modernità: il rischio è forse inevitabile, ma Hounder lo accetta e lo contiene, così che il suo giudice istruttore, il barone Johann Heinrich von Mott, non diviene mai antipatico né anacronistico come il Guglielmo da Baskerville di Umberto Eco. Resta da dire della collana, la benemerita «Cristalli» dell’editore Dadò, che giunta al sessantesimo titolo continua nella lodevole impresa di presentare al pubblico italofono la migliore produzione della Svizzera transalpina.

Bibliografia
Silvio Huonder, Il buio tra le montagne. Armando Dadò 2017, 209 pagine.