Toscani e cattivi

Adelphi propone il Malaparte di Maledetti toscani mentre ETS propone uno studio sul «primo» Benigni
/ 10.07.2017
di Daniele Bernardi

I Toscani, da sempre, hanno il coltello dalla parte del manico. Chi ha provato (a proprie spese) a disquisire con un toscano, sa di che parlo: se c’è qualcosa che questo popolo sa fare è usare la parola come fosse un’arma. Nella terra di Dante e Cecco Angiolieri, umiliare l’interlocutore è un’arte – così come un’arte è sbeffeggiare dio, i santi e la Madonna. Ma questo è ancora niente. Pochissimi, credo, sanno argomentare con la stessa raffinata, tagliente eloquenza: c’è qualcosa di diabolico nell’anima dei toscani: una radice luciferina, fiammeggiante, sembra dardeggiare fra le spine della loro lingua.

Due recenti iniziative editoriali vengono oggi ad avvalorare questa tesi – e a dimostrare un vivace interesse nei confronti della «spietata toscanità». La prima appartiene al prestigioso catalogo dei tascabili della Adelphi, dove ha fatto capolino un pamphlet irreperibile da anni: Maledetti toscani (1956) del grande – e controverso – Curzio Malaparte (Prato, 1898 – Roma, 1957). La seconda, invece, proviene dalla casa editrice ETS, che pubblica ora un interessante studio del critico teatrale Igor Vazzaz sugli esordi di Roberto Benigni: Cioni Mario... di Bertolucci-Benigni per Roberto Benigni. Si tratta, evidentemente, di pubblicazioni profondamente diverse, ma che vanno a scavare fra le faglie della stessa terra.

Ma procediamo con ordine. Come già accennato, quella di Kurt Erich Suckert, in arte Malaparte (lo scrittore era di padre tedesco), è una figura singolare, spesso guardata con sospetto a causa dei suoi acrobatismi ideologici: dapprima fascista e poi comunista, l’autore di Kaputt (1944) e de La pelle (1949) pare incarnare alla perfezione quella caratteristica che, a suo dire, contraddistingue il popolo toscano: l’essere «spregioso». Sprezzante, volgare, cinico e insolente – così, per Malaparte, è l’animo della sua gente: «Ma quello di cui più godiamo, è veder come tutti, italiani e stranieri, si meravigliano del disprezzo col quale noi li ripaghiamo del sospetto e dell’inimicizia loro. Che non è un disprezzo nato a caso, né da ripicco o vanità, né da orgoglio: ma un disprezzo sentito, e risentito, allegro, ragionatissimo, e antico. E basta guardare un toscano come cammina, per capire di che stoffa sia fatto il suo disprezzo».

Con la sua prosa insolente, sanguigna, sin dalle prime pagine Malaparte regala al lettore momenti altissimi, dove, in pochi violenti tratti, riesce a forgiare formule capaci di descrivere perfettamente lo spirito del toscano: «Nessuno ci vuol bene, (e a dirla fra noi non ce ne importa nulla). E se è vero che nessuno ci disprezza, (...) è pur vero che tutti ci hanno in sospetto. Forse perché non si sentono compagni a noi (...). O forse perché, dove e quando gli altri piangono, noi ridiamo, e dove gli altri ridono, noi stiamo a guardarli ridere, senza battere ciglio, in silenzio: finché il riso gela sulle loro labbra».

Nulla, quindi, né morte né Dio, pare intimorire il toscano, che, secondo Malaparte, è temuto soprattutto in virtù della propria intelligenza – un’intelligenza che «non è furberia», ma «un modo di abbracciar con la mente le cose, di comprenderle, cioè, e di penetrarle». La lettura di Maledetti toscani è, pure, esilarante, per quella capacità che ha l’autore di esagerare, di sfociare nel grottesco, di rasentare i limiti della sboccatezza e della violenza verbale (aspetti che, uniti a un’innegabile «irregolarità», lo avvicinano non poco alla persona di Louis-Ferdinand Céline).

E proprio delle stesse peculiarità tratta il saggio che Vazzaz dedica, invece, al primo assolo di Roberto Benigni: Cioni Mario di Gaspare fu Giulia. Per chi non fosse al corrente, si ricorda che il pluridecorato comico italiano, dopo una fase di gavetta nel girone della neoavanguardia romana, debuttò con questo sulfureo monologo nel 1975, per la regia di Giuseppe Bertolucci (figlio del poeta Attilio e fratello del regista Bernardo). Probabilmente, oggi, i più ignorano quanto il giovane fosse allora ben lontano dalla figura addomesticata che oggi incarna: il Cioni è uno spettacolo spietato, di una comicità animalesca, che racconta l’isolamento e la desolazione del mondo di provincia.

Scritto a quattro mani nell’arco di cinque giorni, il testo insegue un giovinastro senza madre, preda di incubi e incontrollate pulsioni erotiche, che vaga tra bar, cinematografi e strade di campagna in cerca di un improbabile contatto umano. Il mondo che ne emerge è cupo, lacerato dalla fine della cultura contadina e sospeso sul baratro di un futuro alienante: alle spalle del Cioni riecheggia, ancora, il vortice del fascismo mentre davanti, come un mostruoso miraggio, trilla lo scintillare dei televisori.

Vazzaz ricompone il percorso dell’attore, dalle origini alla creazione della sua prima maschera; al contempo, con precisione scientifica, smembra la struttura dello spettacolo articolando un discorso di matrice analitica, che prende in considerazione disparate chiavi di lettura della performance. Particolarmente intriganti sono i passaggi in cui è a fuoco la profonda radice poetica dell’anima benignesca: si vedano gli accostamenti fra le memorabili invettive del personaggio – contro il padre, le donne, Giorgio Almirante – e le rime di Angiolieri; o i resoconti dell’apprendistato creativo di chi imparò a fare versi improvvisando fra contadini semianalfabeti che duellavano pubblicamente in ottava rima.

Certo, Cioni Mario... di Bertolucci-Benigni per Roberto Benigni è un libro destinato, soprattutto, a studiosi e ad appassionati; ma questo non lo rende una lettura ostica o esclusiva, anzi: la piacevolissima prosa dell’autore riesce, con disinvoltura, a trasportare il lettore dentro un percorso arricchito da apparati di note, bellissime fotografie d’archivio e interviste. Chi volesse conoscere maggiormente il Benigni «debuttante» è pure invitato a prendere visione, ovviamente, dell’ormai leggendario e geniale Berlinguer ti voglio bene (sempre della coppia Bertolucci-Benigni) – naturale elaborazione cinematografica di quello che fu un dirompente punto di partenza.