*** Vi presento Toni Erdmann, di Maren Ade, con Peter Simonischek, Sandra Hüller, Michael Wittenborn (Germania 2016)
Toni Erdmann è una mosca bianca clamorosa. Il film più singolare e sconcertante dell’anno. Terzo lungometraggio girato da una 39enne cineasta tedesca pressoché sconosciuta, è un film originale, interessante, grottesco, lucido e divertente – seppur troppo lungo – ma anche crudelmente realista e specchio del presente. Poi, quasi per uno sberleffo nei confronti della logica di una sceneggiatura impeccabile nel paradosso, improvvisamente surreale, o francamente esilarante. In definitiva melanconico; e magari esasperante.
Ma le singolarità dello strano oggetto firmato Maren Ade si accumulano: come il fatto che un film così particolare, divertente ma per tanti aspetti radicale e scostante, stia godendo di un’insolita, spettacolare adesione unanime presso la comunità notoriamente capricciosa dei critici festivalieri. Nonché di una clamorosa accoglienza da parte del grande pubblico delle platee internazionali.
Tutto ciò si spiega probabilmente nella formidabile identità fra il film e i suoi personaggi. A perfetta immagine dei protagonisti, Toni Erdmann è al tempo stesso commovente e crudele; sempre determinato, pur nei suoi momenti più sconsiderati e deliranti. È un film semplice e chiaro come la sua fotografia dalla luminosità piatta ma eloquente, attenta a quanto sta succedendo. Ma soprattutto un film dalla libertà così esplosiva da apparire eccentrica, con un tema però prezioso, ancorato nel tempo e nelle psicologie, come quello dei rapporti fra un padre e una figlia.
Si tratta di una vicenda ampiamente condivisibile, di una banalità tutta apparente e di un falso realismo quasi documentaristico, il tutto sullo sfondo finemente introspettivo di una Romania dalla globalizzazione degenerata. Ma subito sopraggiungono le contraddizioni, più o meno allegre, di una filosofia dagli umanissimi quanto paradossali capovolgimenti. Un’esasperante serie di vicissitudini, tutte inventate dal pensionato e da tempo dimissionario genitore Winfried, autodefinitosi Toni (un clamoroso, sconosciuto Peter Simonischek), che si distingue per i lazzi smodatamente goliardici e i travestimenti sgangherati – da petroliere, ambasciatore, dentista o, ancora, amicone della star locale del tennis Ion Tiriac.
Sono espedienti allegramente disperati: tentativi, commoventi e ovviamente indisponenti, di un goffo riavvicinamento edipico all’universo luccicante inseguito dalla figlia 37enne espatriata a Bucarest. La distante figlia Inès (una vibrante, e pure lei poco nota Sandra Hüller), brillantemente rampante ma fragile ed esausta, è una businesswoman ai vertici di una potente multinazionale, e nella propria asettica privacy è ossessionata dalle intrusioni imbarazzanti di quello strano papà.
Due personaggi grotteschi, perfettamente antitetici: sui quali Maren Ade costruisce i suoi centosessanta minuti, in miracoloso equilibrio fra spasso, inverosimiglianza e angoscia. Fra le ragioni dell’intuito (che talvolta conducono al piacere del vivere la fantasia del presente) e quelle di una meccanica inesorabile di un quotidiano dall’esausta, sfuggente rincorsa, il film se le gioca entrambe. Ad esempio con uno striptease integrale a dir poco inatteso, come non avrete forse mai l’occasione di rivedere. Succede, quando l’assurdo riesce a mettersi al servizio della commedia umana.