La performance è una forma di arte nata negli anni Settanta del secolo scorso che porta il corpo dell’artista in primo piano. Non esistono più il quadro o la scultura come opere separate dal creatore, bensì lo spazio, il luogo e il movimento che l’artista stesso organizza. Magari coinvolgendo il pubblico. Al contrario dell’Happening, che è un’azione dettata dal caso, la performance è un evento pianificato. Tutto questo rivoluzionò completamente il mondo dell’arte che però aveva sempre bisogno di sopravvivere tramite i soliti canali delle gallerie. Ben presto si trovò il trucco di filmare le performance e di spacciarle per l’opera. Per i fruitori la questione risultò noiosa anche perché sorbirsi in un museo o in un’esposizione temporanea ore e ore di filmati era ed è piuttosto barboso.
Marina Abramović ha risolto il problema creando le re-performance. Si tratta di una riproposizione delle vecchie azioni realizzate da altre persone sul modello di quelle originali e sempre sotto la sua supervisione. In pratica nelle ultime mostre accanto ai filmati delle sue performance d’epoca troviamo altri giovani che le ricreano, ovviamente non con lo stesso pàthos e la stessa intensità emotiva, ma con modalità simili. Il contesto ovviamente è diverso, ma almeno si assiste dal vivo e non unicamente tramite i soliti video. Le performance si modificano a seconda dell’interprete e così facendo acquistano una nuova vita. Un po’, dicono, come per un brano musicale che da un interprete all’altro muta dall’originale, diretto magari dal compositore stesso.
A Palazzo Strozzi di Firenze, in occasione della retrospettiva dedicata a Marina Abramović, possiamo vedere questa nuova modalità di fruizione presentata per la prima volta nel 2005 al Solomon R. Guggenheim Museum di New York. A Firenze il gruppo di performer è stato selezionato da Lynsey Peisinger, collaboratrice dell’artista. Per poter vedere le re-performance bisogna consultare il sito di Palazzo Strozzi in quanto non tutte hanno luogo nello stesso giorno e alla stessa ora. L’unica riproposta giornalmente è Imponderabilia dalle 11.30 alle 19.30 e il giovedì fino alle 21.30.
Si tratta della performance più semplice e quindi facilmente riproducibile. Di grande impatto perché coinvolge un uomo e una donna completamente nudi; il che al giorno d’oggi ha del miracoloso, visti i tempi che corrono. La prima volta è stata realizzata da Marina Abramović e dal compagno Ulay nel giugno 1977 alla Galleria comunale d’arte moderna di Bologna. In quell’occasione i due artisti hanno trascorso 90 minuti nudi, vicini uno di fronte all’altra. Fra loro i visitatori dovevano passare per entrare nel museo volgendosi verso l’uno o l’altra. Dopo 90 minuti ha fatto irruzione la polizia per bloccare tutto.
Ulay è stato il grande amore di Marina. Assieme hanno realizzato tante performance, utilizzando il loro corpo in un abbraccio totale fra scontro e incontro, dal 1976, anno in cui Marina si è trasferita ad Amsterdam per vivere con lui. Un sodalizio struggente, fatto di viaggi, meditazioni, performance estreme. Sino al 1988 con The Lovers, quando entrambi, partendo uno dal deserto dei Gobi e l’altra da Shan Hai Guan, hanno attraversato in 90 giorni la Grande muraglia cinese per incontrarsi a metà strada e dirsi addio. L’idea era nata otto anni prima ed era quella, appunto, di incontrarsi a metà strada e sposarsi. «La storia epica», scrive Marina, «di due amanti che si incontrano dopo tante sofferenze». È stato solo un addio. Si sono rivisti nel 2010 quando al Museum of Modern Art di New York Marina ha realizzato una performance dal titolo The Artist is Present nella quale per 736 ore ha mantenuto il contatto visivo con 1675 visitatori seduti di fronte a lei. In quell’occasione si è seduto anche Ulay. E hanno pianto assieme, senza parlare.
Ma torniamo alle re-performance. Il lunedì, il giovedì e il venerdì dalle 15 alle 16 e la domenica dalle 12 alle 13 ha luogo Luminosity. Un lavoro presentato alla Galleria Sean Kelly di New York nel 1977. Qui nuda resta in equilibrio sul sellino di una bicicletta con i piedi sospesi in aria e le braccia e le gambe che si alzano e si abbassano lentamente.
Altri lavori coinvolgono il pubblico. Come Counting the Rice del 2015 nel quale i partecipanti dopo aver depositato borse, cappotti, orologi e fotocamere in un armadietto indossano delle cuffie isolanti. Si siedono a un tavolo con al centro un mucchio di riso e lenticchie mescolati assieme. Mediante una bacchetta separano il riso dalle lenticchie e contano i chicchi annotando i risultati su un foglio. Scrive l’artista: «Viviamo in un periodo difficile in cui il tempo vale sempre di più perché ne abbiamo sempre meno. Per questo motivo vorrei dare al pubblico l’opportunità di sperimentare e di riflettere su vacuità, tempo e spazio, luminosità e vuoto. Durante tale esperimento spero che i partecipanti si connettano con loro stessi e con il presente, il fugace attimo del qui e ora».
La mostra fiorentina ripercorre tutto il lavoro dell’artista lungo i suoi cinquant’anni di carriera. Dai primi dipinti a olio alla Strozzina nel sottosuolo alle performance al piano nobile dell’edificio. Le prime performance solitarie e dolorose al limite della sopportazione, come Rhythm 0 a Napoli nel 1974. Sei ore in balia dei visitatori che potevano fare sul suo corpo qualsiasi cosa con 72 oggetti posti su un tavolo vicino. Oggetti quali pistole, chiodi, catene, vernice, coltelli, bisturi, lacci… Le tagliarono la maglietta facendola rimanere a torso nudo, le allargarono le gambe e «conficcarono il coltello a poca distanza dal sesso», qualcuno le tagliò il collo e succhiò il sangue. In quel momento «mi resi conto che il pubblico può ucciderti», scrive. Poi l’incontro con Ulay e infine l’ultimo periodo, maggiormente meditativo e trascendentale, che la vede avvicinarsi al buddhismo e al misticismo. Oggi Marina coinvolge sempre più il pubblico, cambia posizione e, come scrive Lena Essling in catalogo, «diventa silenziosa partner del dialogo o catalizzatrice della partecipazione altrui, come la scintilla che mette in moto un motore».
The Cleaner, si intitola la mostra organizzata da Palazzo Strozzi in collaborazione con il Moderna Museet di Stoccolma, il Louisiana Museum of Modern Art e la Bundeskunsthalle di Bonn. Anche per Marina è giunto il momento di «fare pulizia del passato, della memoria e del destino» per tenere solo quello che serve.
Ottimo allestimento, buone le luci come il catalogo.