Qualcuno (Antonio Dipollina) aveva, subito dopo il voto, pronosticato un «riposizionamento» dei talk della TV italiana dopo il trionfo della destra alle ultime elezioni. In realtà, una un po’ masochistica frequentazione delle palestre in cui si scontrano politici ed esperti di ogni sponda permette di scoprire che invece poco è cambiato nella narrazione isterica di taluni contenitori, compresi gli imbonitori che vi si accampano come conduttori (Giordano, Fuori dal coro; Del Debbio, Diritto e rovescio; Porro, Quarta Repubblica; Palombelli, Stasera Italia; Gentili, Controcorrente – tutti su Retequattro) o come ospiti; e neppure negli spazi più britannici e paludati, in cui i toni (ma solo quelli, eh) del certame oratorio sono meno scomposti, Otto e mezzo, DiMartedì, Cartabianca, Piazzapulita. Poi, business as usual anche in Accordi e disaccordi (Nove), che pur tra qualche eccesso sta trovando nella realtà della politica la conferma di alcune delle proprie tesi; o in Propaganda Live (La7), che continua ad offrire, a tratti e con una bella commistione di registri, momenti di giornalismo vero e di analisi attenta delle cose.
A ben vedere, attendersi un cambiamento di toni a seguito dell'entrata in scena di nuovi manovratori sarebbe stato non cogliere bene i meccanismi e le ragioni di una televisione che va molto avanti a colpi di pugni e schiaffi in faccia al pubblico, nel tentativo un po’ disperato di catturarne la volubile e narcolettica attenzione con espedienti di ogni tipo, anche da avanspettacolo o da circo. Al netto del percepibile mutamento della "narrazione” dei TG del servizio pubblico, tutti ora assai attenti al bilancino tra condiscendenza verso il potere e dignitoso rispetto dei fatti, i talk sono quindi uguali a se stessi, dal punto di vista tematico, linguistico e drammaturgico. Quelli omogenei ai nuovi padroni del vapore hanno smesso i panni dei guastatori per arruolarsi gioiosamente tra i corifei della maggioranza, ma sempre ravanando negli stessi temi, con la stessa “qualità” di analisi e con gli stessi toni; quelli orfani della stagione dei Migliori declinano in forme diverse, con variabile onestà intellettuale e con degnazione lievemente spocchiosa, la presunta superiorità etico-politica di coloro che furono e del loro progetto.
Tutto questo per dire che le vicende del nostro povero mondo, e a maggior ragione quelle minime della politica italiana, non hanno troppo peso né sul modo di fare televisione né sui temi. Da un certo punto di vista, la cosa è rallegrante perché sembra scongiurare un bulgaro allineamento dei media al potere e alle sue attese; dall’altra è una preoccupante conferma che, al pari dei logori minuetti della politica (italiana?), i dibattiti in TV sono un mero espediente narrativo della società-spettacolo e un altro specchio di un rituale social-partitico autoreferenziale, stanco e un po’ fasullo, in cui tutti interpretano il ruolo che ci si attende da loro ma senza né vera passione né interesse autentico per i destini del mondo di cui sopra.