Di Dante, l’ultimo lavoro di Pupi Avati presentato a Castellinaria durante la serata di apertura, colpisce anzitutto il desiderio di attualizzare la figura del sommo poeta e di umanizzarla. La lontananza nel tempo e la conseguente mitizzazione della sua opera lo hanno infatti reso irraggiungibile e lontano da noi. Invece – ed è proprio questa l’intenzione principale del regista bolognese – raccontare la storia della sua vita, con le sue titubanze, le fragilità, i dolori, l’innamoramento e le incertezze è un modo per rendersi conto che è stato prima un ragazzo e poi un uomo come tutti. Pupi Avati, come ha dichiarato alla stampa, se ne è reso conto quando lesse La Vita Nova: «quel prosimetro d’amore che Dante ventenne si trovò a scrivere all’indomani della morte di Beatrice Portinari. Sufficiente a far sì che mi riconoscessi nella gran parte delle emozioni di quel giovane remoto e facessi mio il tentativo di tenere in vita, attraverso la sublimità della poesia, quell’essere celestiale che fu per lui Beatrice». Sentimenti che lo hanno convinto a realizzare un film ambizioso ma allo stesso tempo molto concreto, dove la poesia si confonde con i desideri carnali, e la dura realtà, fatta di guerre ed esili forzati nella Firenze del 1300, si mescola a scene oniriche e metaforiche.
Il film è anche un omaggio a Boccaccio (Sergio Castellitto convincente in una parte non semplice) e alla sua grande ammirazione per Dante. La linea narrativa principale è ambientata nel 1350 quando lo scrittore del Decameron viene incaricato di portare dieci fiorini d’oro come risarcimento simbolico a Suor Beatrice, figlia di Dante (morto in esilio nel 1321) e monaca a Ravenna. L’altra linea narrativa ripercorre gli episodi salienti della vita del poeta, dall’incontro con Beatrice all’amicizia con Guido Cavalcanti, dalle guerre fra Guelfi Bianchi e Neri all’ingresso in politica come priore. Boccaccio si trasforma, in altre parole, in una sorte di detective: incontra i testimoni rimasti in vita e si fa raccontare il Dante uomo. E come non pensare a Quarto Potere dove il giornalista Jerry Thompson viene incaricato di scoprire il significato di Rosebaud, (pronunciato da Charles Foster Kane in punto di morte), attraverso una serie di interviste a chi lo ha conosciuto?
Il parallelismo Pupi Avati-Orson Welles però si rompe subito se pensiamo al resto. Certo, la ricostruzione storica e scenica è davvero precisa e accurata (Avati è un vero appassionato del poeta e ha potuto contare su un importante corpus di filologi dantisti), ma a volte tutto ciò può essere anche controproducente. Se da una parte in Dante si avverte la passione del regista per il poeta e il desiderio di ricostruire fedelmente un’epoca lontana, infatti, dall’altra lo spettatore avverte anche una certa rigidità: il film è composto da una serie di scene ingabbiate da un rispetto troppo grande per la materia trattata.
Alla fine, purtroppo, il regista non ce l’ha fatta, ha commesso lo stesso errore di chi legge oggi Dante: lo ha mitizzato.