Raccontare la guerra è da sempre una sfida per la lingua letteraria, costretta se non proprio a reinventarsi ogni volta da zero, quantomeno a tornare con un occhio nuovo a considerare i suoi strumenti espressivi. Nonostante questo, alcune metafore tutto sommato banali e ispirate al campo semantico della meteorologia («bufera», «tempesta», «ciclone») tornano con una certa frequenza nella letteratura del Novecento, nel tentativo di dare voce a eventi di enorme portata come le due guerre mondiali. Si pensi naturalmente alla Bufera di Eugenio Montale, dalla quale sarebbe facile risalire a un classico del jazz come Stormy Weather – da lui molto amato – e persino ripescare un dimenticato romanzo d’anteguerra, ma già intriso di lucide avvisaglie sul terrore nazista, come The Mortal Storm, pubblicato nel 1937 dalla scrittrice britannica Phyllis Bottome e poi divenuto un film hollywoodiano con James Stewart e Margaret Sullavan (1940). A legare tutti questi prodotti, di poesia, narrativa, musica e cinema, è il denominatore comune di uno sconvolgimento atmosferico capace di travolgere la vita dei protagonisti: non tanto quindi un confronto diretto con l’orizzonte bellico, quanto l’esplicitarsi di una condizione di crisi esistenziale.
Frutto di quella stessa temperie culturale è anche la prima parte di Suite francese, il capolavoro della scrittrice franco-ucraina Irène Némirovsky (nella foto) che nella versione pubblicata nel 2014 offriva in italiano un più banale Temporale di giugno, oggi opportunamente ritoccato in Tempesta dalla traduttrice Teresa Lussone. Il nuovo termine rispecchia l’intensità della visione romanzesca offerta dall’autrice, simbolicamente molto al di sopra del semplice acquazzone estivo e prossima semmai al più complesso allegorismo montaliano – anche se escluderei qualsiasi contatto tra i due.
Nata a Kiev nel 1903 e deportata ad Auschwitz nel 1942, da dove non avrebbe più fatto ritorno, Irène Némirovsky si era fatta notare sin da giovane per la sua scrittura spregiudicata e ironica, velata di autobiografismo, anche in chiave ebraica e altoborghese. Sommersa dalla tragedia novecentesca, è potuta tornare in auge come scrittrice e come persona soltanto negli ultimi anni grazie al lavoro dei discendenti – soprattutto la figlia Denise Epstein – e di un piccolo gruppo di affezionati studiosi. La fortuna di Suite francese, bestseller internazionale sin dalla prima uscita, sembrava avere chiuso per sempre la vertenza: un piccolo classico della letteratura europea finalmente riscoperto e presentato alle nuove generazioni. Che in così poco tempo si sia potuto riaprire quel medesimo cantiere editoriale, fino al punto di giustificare una riedizione del libro, è cosa sorprendente per un’autrice che dovette interrompere il progetto – alla seconda di cinque parti – poco prima di salire su un treno per Auschwitz. Un aggiornamento del diario di Anna Frank, se è lecito osare un paragone, non sarebbe nemmeno concepibile.
Dove sta, allora, la differenza? La spiegano molto bene i curatori del volume nel ricostruire le vicende che hanno permesso questa insperata scoperta. La valigia che conteneva il manoscritto con la prima versione di Suite francese, amorevolmente decifrato da Denise Epstein sul finire della propria vita, conservava anche una versione dattiloscritta (parziale) di un’ulteriore riscrittura. Eccoci allora con due suites: la versione apparsa nel 2014, comprensiva delle prime due parti dell’opera (le altre non furono mai completate), e quella del 2022, che ripropone soltanto la prima parte in una versione però radicalmente nuova. Rimane il dubbio che, con un più tempestivo accompagnamento filologico nei confronti dei discendenti, si sarebbero forse potute gestire diversamente le cose già in prima battuta, magari con un collage di più versioni in un unico volume onnicomprensivo con ampio apparato critico. Poco male, quel che più conta è essere riusciti a salvare, almeno per la prima parte dell’opera, l’ultima volontà dell’autrice.
Le principali differenze tra i due testi sono riassunti da Teresa Lussone in un efficace decalogo che va da una maggiore dose di realismo a una diversa consapevolezza della struttura che sorregge il libro (con l’aggiunta di titoli ai capitoletti, a tutto beneficio dell’idea plurale di suite), senza dimenticare una più efficace gestione dell’intreccio che Irène Némirovsky concepiva in termini quasi cinematografici: «Che si svolga come un film», auspicava in quella miniera preziosa che sono i suoi quaderni d’appunti, ripresi in parte nel volume Adelphi. Soprattutto però, e mi pare questa la conquista più importante, il nuovo testo spinge con decisione verso una scomparsa degli inserti moralizzanti («Un’idea può rovinare tutto»), nella convinzione che uno scrittore debba limitarsi a descrivere senza pensare. Si aggiungono infine quattro episodi costruiti ex novo, mentre di altri si cambia radicalmente il finale: sarà il lettore a scoprirli, se vorrà, nel confronto serrato tra le due versioni.
Irène Némirovsky è oggi un’autrice molto più filologizzata, ma lungi dall’essere uno sterile esercizio accademico, questa rinnovata attenzione alle sue carte è in realtà una forma di amore per il processo creativo cui aveva dedicato, sapendo di essere alla fine, le ultime energie di un’esistenza interrotta troppo presto dalla follia dell’uomo. Mentre nella sua Ucraina si ripropongono scene che mai avremmo pensato di dover vedere ancora, una lettura dei suoi libri, attenta e partecipe, è forse il miglior omaggio postumo che le si possa tributare.
Bibliografia
Irène Némirovsky, Tempesta in giugno, a cura di Teresa Lussone e Olivier Philipponnat, Adelphi, 2022.