«Una dichiarazione d’amore agli esseri umani, ovunque si trovino», così ha definito la terza stagione di Shtisel il suo regista Ori Elon, spiegando che la fortunata serie non vuole di certo essere giornalismo investigativo, opinione politica o studio antropologico. Parole non casuali, se si pensa alle sfide con cui ci si deve naturalmente confrontare nel momento in cui si decide di girare un’intera serie intorno alle vite dei componenti di una famiglia haredi gerosolimitana. Gli ultraortodossi israeliani infatti, per il fatto di rappresentare circa il 12% della popolazione globale del Paese, hanno un peso politico sempre più grande e, agli occhi dei più, controverso, come hanno messo in luce le recenti diatribe relative alle norme restrittive dovute alla situazione sanitaria – particolarmente acuta proprio all’interno delle comunità religiose.
Shtisel, appunto, queste questioni le ha lasciate fuori anche nei nove nuovi episodi, realizzati nel vero senso della parola a furor di pubblico, cedendo alle richieste sempre più pressanti di un enorme numero di spettatori in tutto il mondo che, per lo più con il passaparola, avevano imparato ad amare i protagonisti della serie, a partire dal patriarca Shulem (interpretato da un Doval’e Glickman ormai immenso, capace di brillare di luce propria per tutti e 33 gli episodi).
A distanza di cinque anni li ritroviamo tutti, o quasi, i protagonisti delle prime due stagioni, compresi il Luftmensch Akiva, ora vedovo e padre, Giti, le cui forza e durezza di carattere sono nel frattempo cresciute e Ruchama, reduce dal successo planetario di un’altra serie dedicata all’ortodossia ebraica, Unorthodox.
Nel frattempo il mondo è diventato ancora più veloce, e anche se quello ultraortodosso ebraico resta fedele ai propri principi e alla propria scala di valori, non è più del tutto impermeabile, come dimostra tutta una serie di minuscole concessioni che spaziano dall’utilizzo dello smartphone alla scoperta, da parte di Shulem, dell’omosessualità del proprio cardiologo. La grande novità però, che dimostra come grazie alla globalizzazione le rivoluzioni sociali della nostra epoca tocchino indistintamente, sebbene in misura diversa, anche le frange più tradizionaliste del genere umano, è data dal ruolo delle donne, in queste nuove puntate decisamente fondamentale e in un certo senso imprescindibile. Le donne si sono emancipate per quanto loro possibile, e grazie a questo processo prendono la patente di guida, si rivolgono a centri per la fecondazione assistita, lavorano in radio e gestiscono tavole calde. L’ultima parola è sempre la loro, anche se ai mariti, in una forma di rispetto alla tradizione, lasciano credere il contrario.
Per nove puntate si alternano così gustose risate (come quando Zvi Arye viene dimenticato in macchina dalla moglie) e lacrime di tenerezza (soprattutto al cospetto del dolce Akiva, che si aggira di notte per i vicoli della città spingendo la carrozzina, alle prese con una paternità complicata), in un plot capace di catturare dalla prima inquadratura, e grazie a dialoghi che a tratti hanno il potenziale di rimanere impressi per sempre.
Sebbene a un certo punto Giti dica al marito, riferendosi a un’amica che le chiede aiuto, «La sua storia è la sua storia. Noi abbiamo la nostra», la storia di questi ultraortodossi haredi è universale, perché le loro difficoltà sono le stesse, e non riguardano tanto la religione, e l’ordinamento del mondo che ne deriva per chi la pratica, quanto il desiderio (reso bene dalla parola inglese longing) di appartenenza che accomuna ogni essere umano. E poco importa la natura di quell’appartenenza (religiosa, familiare, amicale), quanto più la grazia e la profondità con cui in questa serie viene affrontata. La sensazione che ne deriva per lo spettatore è ben espressa dal fantastico Michael Aloni (Akiva), che alla notizia del ritorno sul set di Shtisel ha parlato di un «ritorno a casa».