Spunta un fiore nel vocabolario

Evviva la biodiversità, pardon, la lessicodiversità
/ 17.02.2020
di Laila Meroni Petrantoni

La Terra è un pianeta da salvare, o forse sarebbe meglio dire che il genere umano si è accorto di essere in pericolo e vuole mettere in salvo sé stesso. L’homo sapiens, trasformatosi in homo technologicus con propaggini oltre le ultime falangi della mano sotto forma di tastiere varie, si è svegliato da un brutto sogno con il rischio di cadere in un incubo. «Non parliamo di cambiamento climatico, dobbiamo finalmente parlare di emergenza climatica», ha dichiarato lo scrittore americano Jonathan Safran Foer in occasione del lancio del suo ultimo libro Possiamo salvare il mondo, prima di cena.

Perché questa premessa? Che c’entra con questa rubrica? C’entra, perché anche la lingua batte, batte un colpo perché è viva e vuole restarlo: non ci pensa neanche a volersi estinguere e darla vinta ai codici da singhiozzo che imperano nel regno di Whatsapp e compagnia bella. Prendiamo l’italiano, che di strada già ne ha fatta tanta. Oggi si tende più spesso a concentrare l’attenzione sui neologismi, sulle parole moderne e di tendenza. In Italia però c’è una storica casa editrice che ha lanciato a suo modo un «allarme estinzione», una discreta emergenza linguistica.

Lo Zingarelli 2020, infatti, è uscito recentemente con una precisa missione nuova da compiere: non si tratta solo di dare dignità filologica a circa mille nuove parole o nuovi significati (da «ciclofattorino» a «pinsa»), soprattutto i prodi cavalieri in Zanichelli vogliono ridare onore a (precisamente) 3126 «parole da salvare», a torto già con un piede nella fossa. Sono ad esempio «obsoleto», «ingente», «diatriba», «leccornia», «ledere» o «perorare», che vengono ora coccolate spiegando all’italofono che sono «preferibili ai loro sinonimi più comuni ma meno espressivi». Ed ecco che ognuna delle voci in questione viene contrassegnata nel vocabolario da un fiorellino, così che possa facilmente attirare l’attenzione e ricordare a tutti «ehi! ci sono anch’io!»

È una trovata geniale: cosa più di un piccolo fiore può trasmettere un messaggio di fragilità ma allo stesso tempo di bellezza? E poi, ecco servito su un piatto d’argento un accostamento subliminale tra natura in pericolo e parola in via di estinzione. La casa editrice ha voluto fare anche di più: nelle principali città italiane ha piazzato un vocabolario gigante in cui ogni passante poteva scegliere la parola da salvare preferita e ridarle slancio attraverso gli immancabili canali social con l’immancabile hashtag #paroledasalvare.

«Largo ai giovani, diamo spazio alle parole nuove», potrebbe obiettare qualcuno. Ma certo, nessuno ama camminare all’indietro. «Largo alla semplicità, promuoviamo una lingua comprensibile a tutti», potrebbe gridare qualcun altro. Assolutamente sì, in quanto il primo obiettivo resta la chiarezza nella trasmissione del messaggio. Eppure, perché non trasformare una comune (o mediocre) esperienza comunicativa in una sfida? In un’esperienza personale da condividere con gli altri? In una creazione? Insomma, in qualcosa di bello? Oltre a scacciare la monotonia, riuscire a esprimersi grazie a un proprio bagaglio di termini che vada oltre il minimo utile alla sopravvivenza aiuta a trasmettere un’idea più precisa del nostro pensiero, senza per questo dover scadere in un aulico che suona cafone e che farebbe scappare buona parte dei nostri interlocutori.

Mi piace l’idea di salvare questi fragili fiorellini linguistici. A un prato inglese – perfetto, simmetrico, rigoroso, freddo e decisamente troppo verde – preferisco una distesa di erbe varie e fiori di campo – colorata, simpaticamente anarchica, che non teme di spettinarsi con il vento. Viva la bio-diversità, e viva anche la lessico-diversità.