Sperimentare senza complessi

Berlinale/1 La giovane cinematografia svizzera abbatte le frontiere fra i generi
/ 08.03.2021
di Giorgia Del Don

Sebbene la qualità dei film documentari «made in Switzerland» sia ormai riconosciuta internazionalmente, la cinematografia svizzera fatica ancora a imporsi nel mondo della finzione, un po’ come se l’apparentemente innato pragmatismo elvetico non autorizzasse i registi a sognare mondi possibili. Una constatazione questa che rende la presenza di numerosi film di finzione rossocrociati nelle diverse sezioni della prestigiosa Berlinale decisamente inaspettata. Ciò che amplifica ancora maggiormente questa sorpresa, è la freschezza delle proposte: tanto dal punto di vista tematico ed estetico quanto generazionale, vista la giovane età dei registi, per lo più al loro primo o secondo film.

Confrontata con l’aggravarsi della crisi sanitaria, anche la combattiva città di Berlino ha dovuto rassegnarsi rinunciando alla sua Berlinale così come l’ha sempre conosciuta. Una riorganizzazione rispetto alla forma (un primo momento online per stampa e professionisti del settore e un secondo, in giugno, aperto al pubblico) che non ha però intaccato il rigore della selezione dei film che, sebbene in modo quest’anno più tortuoso, sono comunque riusciti a stuzzicare la curiosità dei vari comitati di selezione.

Fra questi troviamo cinque intriganti produzioni svizzere, molto diverse tra di loro eppure accomunate dal bisogno di sperimentare senza complessi: Azor d’Andreas Fontana e Das Mädchen und die Spinne dei fratelli Zürcher (Ramon e Silvan), nella sezione più sperimentale Encounters, Tides di Tim Fehlbaum, nel programma Berlinale Special, Taming the Garden della regista georgiana Salomé Jashi, che fa parte di Focus, e La mif del ginevrino Frédéric Baillif, nella sezione Generation 14plus dedicata a un pubblico giovane o a quanti desiderino stabilire con gli adolescenti d’oggi, troppo spesso ridotti al silenzio, un dialogo fruttuoso e paritario.

Cinque proposte che flirtano con i generi cinematografici rendendoli quasi obsoleti. Sebbene quattro di questi film siano presentati come finzioni, gli echi costanti fra le storie che raccontano e l’attualità che li ha visti nascere ci rimandano inevitabilmente alla nostra quotidianità: la dualità fra bisogno di libertà e ricerca d’intimità (di cui da più di un anno siamo privati) per Das Mädchen und die Spinne, il monito riguardo allo sfruttamento sconsiderato delle nostre risorse naturali celato dietro il thriller distopico di Tim Fehlbaum, il fare i conti con le ombre d’un passato ancora ben presente per Azor, o ancora il ricercare la finzione nella realtà stessa, nella vita dei personaggi che mette in scena, per il film di Frédéric Baillif.

Allo stesso modo il documentario, come illustrato da Taming the Garden, si trasforma in poesia facendoci viaggiare lontano, oltre i confini del reale. Il decostruire i generi cinematografici diventa per questi registi un’operazione quasi naturale che ha come punto di partenza il bisogno d’indagare ciò che si nasconde oltre la superficie asettica del nostro mondo iperconnesso. Tutti i mezzi sono buoni per ridare alla quotidianità la poesia che merita, soprattutto in questi tempi aridi di stimoli culturali.

Paladini di un cinema esteticamente potente, ambiguo ed estremamente affascinante, i gemelli Ramon e Silvan Zürcher presentano quest’anno alla Berlinale il loro secondo film (parte di una trilogia in progress) Das Mädchen und die Spinne, che partendo dalla banalità di un trasloco distilla momenti di pura poesia, amplifica suoni e ingrandisce oggetti e gesti che da irrisori si trasformano in indizi fondamentali per decifrare l’interiorità dei protagonisti.

A metà strada fra la schiettezza accecante di Rohmer, la bellezza quasi architettonica di Antonioni e la sensibilità a fior di pelle di Chantal Ackerman, Ramon e Simon Zürcher interpretano in modo personale le emozioni che abitano le due protagoniste: la ricerca d’indipendenza di Lisa (Liliane Amuat) e il bisogno d’intimità di Mara (Henriette Confurius). Una storia di ragazze, anche se lontane anni luce dagli stereotipi di genere, anche quella di La mif che dipinge il quotidiano d’un gruppo d’adolescenti in un centro educativo ginevrino.

Fedele alla sua idea di finzione come prodotto della realtà stessa, Frédéric Baillif costruisce ancora una volta i suoi personaggi basandosi sulla personalità delle sue attrici, tutte non professioniste. Una maniera di procedere molto particolare che spinge le protagoniste di La mif a esprimersi con una sincerità sconcertante malgrado, o forse piuttosto grazie alla fragilità che ognuna di loro possiede. Una simbiosi tra persona e personaggio che necessita una sensibilità e un lasciarsi andare straordinario per delle ragazze così giovani e vulnerabili.

Azor (astore in italiano, un rapace usato nella caccia) si contraddistingue invece grazie a un’estetica potente fra minimalismo e sentimenti estremi come l’invidia e la smania assoluta di potere. Il tutto incarnato da un personaggio estremamente intrigante: il banchiere Yvan De Wiel (interpretato a meraviglia da Fabrizio Rongione) che arriva in Argentina nel bel mezzo della dittatura per sedurre i clienti abbandonati dal suo partner, scomparso improvvisamente nel nulla. Ispirato a fatti realmente accaduti, Azor mette in scena gli (anti)eroi di un mondo corrotto che si nutre di segreti sussurrati e di terribili misteri. Cosa si nasconde dietro il viso imperturbabile di De Wiel? Cos’hanno visto i suoi occhi e cos’hanno sentito le sue orecchie? Ma soprattutto fino a che punto è capace di spingersi, di avvicinarsi al male più assoluto, per essere il migliore?

Fra sogno e realtà, i film svizzeri selezionati quest’anno alla Berlinale hanno portato alla ribalta una nuova generazione di cineasti: spensierata e coraggiosa, capace tanto d’edonismo quanto d’empatia, ricca d’un’indispensabile faccia tosta che non possiamo che accogliere con entusiasmo.