Come i proverbi popolari insegnano, non si ha mai idea di quanto un lavoro sia complesso finché non si prova a svolgerlo in prima persona; e quello di comporre e incidere un perfetto brano soft rock – che riesca non solo a essere piacevole, ma magari anche intenso, senza tuttavia scivolare nella banalità o nell’easy listening troppo spinto – è, di fatto, un compito ben più difficile di quanto non appaia a prima vista. A volte, però, ogni dettaglio sembra combinarsi affinché si compia il miracolo; e, come nel caso di Mexico, il nuovo lavoro appena pubblicato dalla formazione dei Mighty Oaks, il risultato è a dir poco perfetto, dal punto di vista formale come da quello artistico.
Del resto, fin dalla line-up, il trio dei Mighty Oaks si è sempre presentato al pubblico come una realtà quantomeno intrigante, anche perché del tutto internazionale: la band è infatti composta dal britannico Craig Saunders, l’italiano Claudio Donzelli e lo statunitense Ian Hooper – e, come facilmente immaginabile, ha eletto a propria «base» una città oggigiorno fortemente cosmopolita quale Berlino. Da lì, proprio nel cuore dell’Europa, i Mighty Oaks hanno cominciato la loro avventura musicale, dando alle stampe il primo EP ormai un decennio fa, nel 2011. All’epoca, la band fu naturalmente catalogata come esponente del cosiddetto «indie rock», ovvero di quella particolare branca della musica indipendente caratterizzata da gruppi perlopiù giovani, che scelgono di militare in case discografiche «minori» o, addirittura, nell’ambito delle autoproduzioni; tuttavia, nel caso dei Mighty Oaks, l’elemento folk-rock era, fin dagli esordi, altrettanto preponderante.
In effetti, di primo acchito, la band non sembrerebbe esattamente costituire un esempio di originalità musicale: il particolare stile di soft rock dei tre ricorda infatti una certa sfumatura di cantautorato americano, a cavallo tra il sound west coast di Crosby, Stills & Nash e le ballate di artisti della moderna tradizione americana quali Tom Petty e Ryan Adams; e di fatto, dal punto di vista strettamente musicale, questo CD non offre all’ascoltatore navigato nulla di nemmeno lontanamente sorprendente. Eppure, ascoltando Mexico si può tranquillamente affermare che ogni traccia sia a dir poco esemplare, sia in termini compositivi che di produzione, al punto da poter essere presa a perfetto esempio del sound ideale di una qualsiasi canzone radiofonica di superba fattura.
Vi è infatti, da parte dei Mighty Oaks, una grande consapevolezza artigianale nel modo in cui ogni brano è elaborato, strutturato e inciso; ma soprattutto, ciò che più stupisce della tracklist di Mexico è la totale assenza di riempitivi: ogni traccia presenta sufficiente forza stilistica e interpretativa, e arrangiamenti talmente aggraziati nella loro apparente semplicità, da potersi definire come un potenziale singolo – cosa che oggi costituisce una vera e propria rarità, considerando quanto l’arte del songwriting moderno tenda a sacrificare il rigore formale a favore d’una collaudata banalità. Questo non significa, naturalmente, rinunciare a pezzi assolutamente orecchiabili, qui scelti come brani apripista per il CD: saltano immediatamente all’occhio la title track Mexico, il cui assolo di armonica suona come un exploit tratto da un disco anni 90 del già citato Tom Petty, e l’irresistibile Forever; mentre Land of Broken Dreams, classica ballatona americana nella migliore tradizione dell’FM rock, rappresenta una perfetta hit, per molti versi non troppo dissimile da certi brani del più recente Bruce Springsteen.
La tracklist si snoda così tra pezzi che, sebbene apparentemente spensierati nelle loro sonorità easy listening, toccano temi di una certa intensità – si vedano la ballata folk Devil and the Deep Blue Sea e What You Fighting For, i quali tradiscono una certa, sottile disperazione, chiaramente percepibile al di sotto degli arrangiamenti ritmati; senza dimenticare il carattere di brani ancora più intimisti e dal respiro cantautorale, come lo struggente Heavy e, soprattutto, l’accusatorio psicodramma Ghost. Sentimenti che vengono trasmessi all’ascoltatore tramite liriche semplici e quasi minimaliste, eppure sempre molto efficaci nella loro sottile eleganza; come dimostrato da veri e propri, piccoli capolavori di songwriting quali Bad Blood e My Demons (quest’ultimo impreziosito da cori in stile vagamente da film western, reminiscenti dell’ultimo lavoro dei colleghi Other Lives). Ma non mancano nemmeno pezzi più romantici: su tutti, By Your Side, che sembra uscito direttamente da un album anni 80 di Rod Stewart.
E proprio tale versatilità suggerisce come perfino l’ascoltatore casuale non potrà che rimanere colpito dalla grazia e dal rigore espressivi che animano questo Mexico – un lavoro che, mostrando grande professionalità e cura (ma senza nessuna presunzione), riesce pienamente nella difficile impresa di stabilire un equilibrio perfetto tra un sound accattivante e il songwriting più onesto e impeccabile.