L’ultima domanda è l’occasione per la risposta più decisa e disarmante: «Come posso credere in Dio dopo quello che ho vissuto? Perché ho ricevuto tantissime cose belle e perché nessun potere, per quanto violento, forte e pervasivo, può arrivare fino al cuore, se tu lo mantieni integro».
Mariss Janson è uno dei più grandi direttori d’orchestra viventi, per molti il più grande. Il pubblico di Lugano Musica lo ha potuto constatare quando, a novembre, si è esibito al Lac con il formidabile Bayerischer Rundfunk. Per chi oggi gira il mondo ricevendo onori e ovazioni nei più importanti teatri, per chi a 74 anni ha ancora l’agenda congestionata dagli impegni con le maggiori orchestre, potrebbe risultare ovvio dire che «la fede e l’arte sono le due cose più importanti della mia vita; sarebbe bello che avessero più importanza anche nelle vite di tanti altri». Ma a sentirlo ripercorrere i suoi settant’anni, da quando piccolissimo venne iniziato all’arte e alla fede dai genitori, l’ovvietà si dissipa.
Per lui la vita è stata una sfida non dai primi, ma dal primissimo passo: «Sono nato a Riga mentre era assediata dalle truppe hitleriane; mia madre, dopo che le erano stati uccisi il padre e lo zio, si era rifugiata in uno sgabuzzino ed è lì che venni alla luce». La mamma era cantante d’opera, il padre dirigeva l’orchestra cittadina: «Non c’era la baby-sitter e mi portavano ogni giorno in teatro: assistevo alle prove dei concerti e agli allestimenti delle opere; alla sera, a casa, mi mettevo anch’io a spiegare ad orchestrali immaginari come suonare, cantavo, ballavo e con due pezzetti di legno diventavo violinista». Terminati i giochi, già tutti musicali, «la mamma mi faceva recitare le preghiere: la fede mi è stata trasmessa così, in modo semplice e familiare».
Jansons non può ricordare l’assedio nazista, conobbe la forza dei regimi da adolescente, seguendo le vicende di suo padre: «Il Partito aveva deciso che Rostropovich (il più grande violoncellista del 900) era un personaggio sgradito e andava allontanato (aveva ospitato per quattro anni nella cantina della sua casa Solgenitsin, (lo scrittore che con Arcipelago Gulag aveva fatto conoscere all’Occidente gli orrori dei gulag stalinisti, ndr.). Così intimò a mio padre come ad altri musicisti di firmare una lettera con cui sottoscrivevano questo giudizio e questa intenzione; ma Slava era un amico oltre che un grande uomo e un grande musicista, e così mio padre si rifiutò, anche se le pressioni e le ripercussioni furono enormi».
Qualche anno dopo sarebbe toccato anche a lui saggiare le chiusure della cortina di ferro: nel 1968 riuscì a partecipare a una masterclass per giovani direttori con Herbert von Karajan, che notò subito il talento di quel 25enne lettone: «Mi chiese di diventare suo assistente ai Berliner Philharmoniker, ma il Partito mi negò il permesso di stare fuori dai confini sovietici. Solo dopo, quando iniziavano a intravvedersi i prodromi del disgelo, mi lasciarono andare: fu un momento fondamentale, lavoravo con lui dalle nove del mattino alle undici di sera: lui era un uccello che volava nell’aria e noi umani lo ammiravamo da terra, ho imparato tantissimo come tecnica e come visione della musica».
Nel 1985 il padre morì d’infarto mentre era sul podio a Manchester, nel anche lui 1997 rischiò di fare la stessa fine: «Ero a Oslo, stavo dirigendo la scena finale di Bohème ed ebbi anch’io un infarto; non ricordo nulla, ma gli orchestrali mi raccontarono che mentre franavo a terra la mia mano destra cercava di tenere ancora il tempo... Non so se sia vero, però qualche settimana dopo ebbi un altro attacco. Non fumavo né bevevo, ma lo stress, il tanto lavoro, la vita vagabonda dell’artista stavano mettendo a dura prova il mio fisico; passai tra settimane in una clinica vicino a Locarno, dove sono tornato varie volte per dei controlli: tre settimane, la prima con totale distacco dallo studio, una sofferenza per chi come me ha sempre riempito la sua vita con la musica».
L’importanza data all’arte lo porta ha valutazioni interessanti: «Non tutto del regime comunista era un male: il livello artistico era altissimo, per affermarsi era una lotta perché la concorrenza era tanta e qualificata. Quando ho iniziato a lavorare a Oslo la lotta era per avere un’orchestra e un teatro, poi per affermare la nostra qualità: c’era la democrazia, e questo è un bene, ma ad esempio non si poteva dire che un’orchestra fosse migliore delle altre e questa è una visione distorta della democrazia».