In qualche modo è un po’ come se vi fossero due Italie. Da una parte quella che tutti, italiani compresi, deplorano, fatta di lungaggini, sotterfugi e tirareacampà e che dà l’idea di un infinito immobilismo (un esempio per tutti, fra i più recenti, è quello del 13 dicembre, giorno in cui la Camera avrebbe dovuto discutere del suicidio assistito ma, in un’aula deserta e di fronte ad appena 15 deputati, si è vista costretta a rimandare il dibattito).
Vi è poi un’altra Italia, che sembra avere una marcia in più e, fatto forse ancora più rilevante, si rivolge non solo alla Penisola, ma al mondo intero. L’Italia da esportare, verrebbe da dire, quella che tiene alti i cliché della creatività e dell’inventiva, che reitera la sua fama di cultrice di tutto quanto è bello, prezioso, e che rappresenta l’avanguardia. Di esempi in questo senso nei mesi scorsi ne abbiamo visti molti, dal successo planetario dei Måneskin, che riescono a sdoganare il rock in italiano, ad Alessandro Michele, fine conoscitore d’arte che veste celebrità e adolescenti attraverso il brand Gucci, o ancora Zerocalcare, che con la sua verve incondizionatamente libera e un tratto felice e permeato di umanità, da quando è su Netflix, miete un successo dopo l’altro nei paesi più disparati (Indonesia e Turchia, solo per fare qualche esempio).
E poi c’è Sorrentino. Il regista che manda in visibilio le platee del mondo, che porta i critici a scomodare Fellini (La grande bellezza starebbe a La dolce vita, così come È stata la mano di Dio sta ad Amarcord) creandogli non poco imbarazzo («tutti noi venuti dopo di lui siamo solo dei volgari imitatori») e a coniare neologismi. A.O. Scott infatti, in un articolo apparso il 14 dicembre sul «New York Times», ha definito il regista napoletano poco più che cinquantenne, «a compulsive, unabashed aestheticizer», ossia un estetizzatore imperturbabile e compulsivo.
Paolo Sorrentino, in quello che è senza dubbio il suo film più personale e intimo, È stata la mano di Dio, per il quale ha dovuto fare il doloroso esercizio di aprire lo scrigno dei propri ricordi, nel film è Fabietto Schisa (un grande Filippo Scotti), sensibile adolescente napoletano, con un fratello che si culla in velleità artistiche (vuole fare l’attore), un padre poliinnamorato (Servillo… che fa Servillo, in modo eccellente), una madre che adora gli scherzi (Teresa Saponangelo: frizzante, dolce) e uno stuolo di zie, una più gonfia e pettegola dell’altra, fra cui però ne spicca una in particolare, diversa e fonte di ogni turbamento puberale: Zia Patrizia, una Luisa Ranieri che è l’incarnazione della procacità italica nella sua accezione migliore.
Fabietto pensa a fare l’adolescente, fra le corse pazze in Vespa con i genitori sul litorale partenopeo e le scommesse su Maradona El Pibe, che si mormora stia per essere acquistato dal Napoli. E via con i commenti a voce alta su parenti e calcio, gli assembramenti davanti ai televisori degli Anni 80 per vedere le partite ed esultare insieme alla città intera, i ritrovi di famiglia con le mangiate allo sfinimento: Fabietto ama la sua vita.
Ma proprio sul più bello, quando l’età per definizione dovrebbe ancora dilazionare quei tormenti che con l’adultità si fanno crucci e problemi, un colpo di scena spezza il sereno fluire esistenziale di Fabietto, di colpo orfano, di colpo obbligato a crescere, pur non avendo ancora nemmeno imparato come si piange. È qui che entra in scena l’estetizzatore, palesandosi là dove il dolore diventa un’opera d’arte (nello smarrimento di Fabietto e negli occhi persi di Zia Patrizia, nel candelabro rovesciato a terra), dove i difetti dei parenti vengono dipinti con veloci pennellate in barba a ogni forma di political correctness, dove si comincia a respirare odore di archetipo.
A volte guardando un film di Sorrentino, si restava con un senso di incompiutezza, che perdurava parallelo alla scia di bellezza suscitata da certe riprese e immagini. Ora invece, e di nuovo si respira una Grande bellezza, si ha l’impressione di avere compiuto un giro di boa insieme a uno dei registi più visionari e ironici della nostra epoca, e a togliere il fiato durante la visione del film saranno proprio le immagini di Napoli, che finalmente Sorrentino è riuscito a raccontare, rendendole l’omaggio dal cuore che essa merita.