«Non ballo il tango, con la famiglia abbiamo lasciato l’Argentina quando avevo 12 anni e quindi non ho assorbito molto le tradizioni del mio Paese; e poi sono timida: se proprio dovessi ballare, non lo farei con un uomo, ma col mio violoncello».
Col suo prezioso Guadagnini del 1759 ha danzato sui palcoscenici più prestigiosi, solista con i Berliner Philharmoniker e la London Symphony, e nei prossimi giorni Sol Gabetta sarà protagonista al LAC di Presenza, una sorta di festival di Pentecoste: due serate con l’Orchestra della Svizzera Italiana diretta da Markus Poschner, venerdì e domenica, sabato doppio appuntamento cameristico. «Più che un festival vorrei fosse visto come una carte blanche che mi viene concessa e che ho concepito sia con mio marito sia con Poschner: un musicista che conosco bene – ricordo uno splendido Concerto di Dvorak con lui a Brema – e con cui è facile lavorare perché ha una mente molto aperta; quando mi proposero questo progetto triennale – avrebbe dovuto partire nel 2020, ma la pandemia ha ritardato la prima edizione – posi come condizione che non fossi sola a pensarlo, ma che si potesse instaurare un confronto costruttivo con Poschner».
Per la violoncellista argentina emigrata prima in Spagna e poi a Basilea, dove ha studiato ed è cresciuta non solo come musicista («immergendomi in un mondo nuovo: a pochissimi chilometri c’erano i confini con Francia e Germania, lingue e mondi diversi, in Argentina potevo percorrere 1200 chilometri rimanendo nello stesso ambiente e sentendo sempre parlare spagnolo»), un aspetto fondamentale è «riflettere sulla formula del concerto, che negli ultimi settant’anni si è mantenuta praticamente invariata, con il dittico concerto solistico – sinfonia al massimo preceduto da un’ouverture, e dove i programmi sono prestabiliti dal direttore o dal sovrintendente. Quando faccio un bilancio dei concerti cui partecipo, constato che la quasi totalità segue questo schema; tutto mi sembra terribilmente fisso, rigido, non si possono cambiare neppure le luci della sala o le posizioni delle sedie. Durante la pandemia ho seguito alcuni concerti in streaming, con le sale vuote, e ho notato che i musicisti, tra un brano e l’altro, non sapevano che cosa fare. Penso che il rituale del concerto vada ripensato in tanti aspetti: come si entra ed esce, come si possa vivere l’intervallo, anche curando particolari che qualcuno giudicherà accessori come la qualità del bar». Sicuramente non ordinari sono i programmi che Gabetta ha pensato assieme a Poschner e di cui è protagonista assoluta: venerdì serata tutta francese con l’ouverture Le Roi d’Ys e il Concerto di Lalo accostati alla seconda suite dalla Carmen di Bizet e al secondo Concerto di Saint-Saëns, che Gabetta affronterà assieme al Primo domenica, intervallati dalle ouverture La tempesta e Romeo e Giulietta ispirate a Ciajkovskij da Shakespeare, col gran finale del Guglielmo Tell rossiniano; nel mezzo, sabato, rileggerà il repertorio cameristico di Rossini. Con alcuni professori della Osi. «Il Primo di Saint-Saëns tenne a battesimo il mio debutto con orchestra: era la Kammerorchester di Basilea, dove studiavo, lo preparai per quasi un anno e lo conoscevo tutto a memoria, potevo cantare ogni parte degli altri strumenti. Mi trovai a mio agio perché conoscevo benissimo l’orchestra: vivendo a Basilea, ero andata a decine di suoi concerti. E continuo a farlo: abbiamo inciso insieme il Concerto di Schumann».
Su quelli di Saint-Saëns, Gabetta sottolinea come «siano da alcuni ritenuti di secondo livello rispetto a quelli più eseguiti, come Dvorak, Elgar, Haydn; invece sono splendidi, ricchi di melodie luminose e ariose; lo stesso si può dire di Lalo, caratterizzato da un linguaggio appassionato, originale e immediatamente riconoscibile. Anche perché il nostro repertorio non è vasto come quello di pianisti e violinisti, e non si può non considerare questi concerti dei capitoli fondamentali per la storia e la letteratura del violoncello».