Uno dei fenomeni forse più sconcertanti riscontrabili all’interno della società occidentale è rappresentato dal malcelato disagio che, ancor oggi, caratterizza il comportamento assunto dai comuni cittadini nei confronti della cosiddetta «malattia mentale». Un atteggiamento a causa del quale le persone affette da disturbi di natura psichica si ritrovano immerse in una perniciosa solitudine, caratterizzata dalla diffidenza altrui e inevitabilmente destinata a tradursi in un’eccessiva quanto dannosa introspezione – una sorta di condanna a passare in rassegna la propria intera vita, rimpiangendo la spensieratezza.
Proprio questo sentimento disperato quanto struggente è il leitmotiv di Wildness, nuova opera della band degli Snow Patrol, talentuosa formazione irlandese salita alla ribalta nel 2003 grazie alla finezza di brani come Chasing Cars e You Could Be Happy, il cui sapore agrodolce combinava suggestioni intimiste e l’orecchiabilità del miglior pop radiofonico anglosassone. Una tattica che ha permesso al gruppo di ottenere ottimi riscontri non solo in ambito commerciale, ma anche da parte della critica internazionale – eclissando nel contempo, agli occhi del pubblico, il dramma personale vissuto dal front-man e vocalist Gary Lightbody, il quale sta oggi faticosamente riemergendo da una grave depressione e dipendenza da alcool. Ecco quindi che, dopo un silenzio durato ben sette anni, gli Snow Patrol si cimentano in un’operazione artistica coraggiosa quanto complessa, nella quale Lightbody – che i video promozionali di questo CD mostrano come un uomo ormai disilluso, il cui sguardo sofferente e viso scavato offrono uno scioccante contrasto rispetto ai filmati di appena pochi anni addietro – fa di Wildness un tramite per i propri sentimenti più profondi.
Sentimenti che riverberano con forza non solo nell’intrigante traccia di apertura (la raffinata Life On Earth, caratterizzata da un vigore e una sincerità a tratti quasi sorprendenti), ma nella maggior parte dell’eccellente tracklist, i cui accenti elettronici non riescono a occultare la lacerante disperazione nella voce ormai nuda e indifesa di Gary: ne sono una prova lo straziante lento What If This is All the Love You Ever Get? e Don’t Give In, evidenti incitazioni a cercare, nonostante tutto, di resistere a un dolore costante e crudele. Ma il pezzo che, forse ancor più degli altri, offre una fotografia scarna quanto lancinante dell’animo del proprio autore è il commovente Soon, il cui videoclip, non a caso, mostra un collage di filmati di un giovane e ancora allegro Lightbody e, al pari delle liriche, evidenzia un legame salvifico con l’anziano padre affetto da Alzheimer: il che non impedisce al brano di colpire come uno schiaffo chiunque abbia mai avuto esperienza di una grave agonia interiore – «la tua vita non ti passerà davanti agli occhi in un baleno / invece, scivoleremo semplicemente via per scioglierci come neve / le segrete tempeste della tua gioventù selvaggia / sono ora semplici brezze gentili, calde e lievi».
Così, poco importa se, all’interno della tracklist, brani come Empress e A Dark Switch tradiscono un’intensità forse non comparabile al resto dell’album: per contro, anche alcuni tra i pezzi apparentemente più uptempo si rivelano delle vere gemme, come ad esempio il vigoroso A Youth Written in Fire, una sorta di «sguardo indietro» a tempi più felici, i quali, tuttavia, celavano già in sé il «nodo» che Gary sta ora disperatamente cercando di sciogliere. Questa trattenuta costernazione, che il coraggio di affrontare i propri limiti trasforma piuttosto in naturale e quasi gestibile disincanto, riverbera anche nella traccia di chiusura, Life and Death: un titolo, in fondo, simbolico, riferito alla scelta cruciale che ogni persona fortemente depressa si trova a dover affrontare – quella tra una «comoda» morte (che eliminerebbe alla radice qualsiasi tormento) e una più coraggiosa, ma terribilmente impegnativa, insistenza a sopravvivere.
E se l’ascolto di Wildness dimostra, nel modo migliore e più completo, come Lightbody abbia deciso infine di propendere per la seconda opzione, è proprio tale nuda, sapientemente elaborata sofferenza a rendere questo disco il miglior lavoro di sempre della band, che qui si dimostra in grado di coniugare i due elementi da sempre cruciali della forma canzone: la capacità di «fotografare» sentimenti di grande complessità e un’invidiabile (e affatto scontata) leggerezza formale. Realizzando così una sublimazione artistica di altissimo livello, in grado di innalzare il proprio vissuto, e le esperienze più strettamente intime e personali, a paradigma universale, fruibile da qualsiasi ascoltatore. Difficile, in fondo, chiedere di più a un album pop.