È un dibattito datato, quello che vede i fan di vecchia data dell’ormai stagionata rock band scozzese dei Simple Minds affermare con veemenza come la loro formazione del cuore non abbia mai, agli occhi del grande pubblico, ricevuto l’apprezzamento critico che avrebbe meritato – apprezzamento andato invece a coetanei dall’appeal popolare maggiore quali U2, Bruce Springsteen e affini. Nonostante ciò, il gruppo capeggiato dal cantante Jim Kerr ha sempre potuto contare su uno «zoccolo duro» di ammiratori caratterizzato da grande fedeltà e costanza; e sebbene i dischi più recenti della formazione non siano forse intrisi del medesimo vigore creativo che ne aveva caratterizzato gli sforzi giovanili, fa sempre piacere poter inserire nel lettore CD un nuovo lavoro a firma Simple Minds.
Anche perché questo nuovo Walk Between Worlds offre una formazione che, in barba agli ormai quarant’anni di carriera sulle spalle, suona di colpo ringiovanita e nuovamente mossa da genuina voglia di fare rock, seppur adattando il proprio peculiare stile musicale alle tendenze odierne: ed è una fortuna, poiché molti fan erano stati scoraggiati dal singolo apripista del Cd, Magic, esempio a dire il vero piuttosto scialbo di pop elettronico nella sua accezione più commerciale, a base di autotune e distorsioni vocali.
Invece, ciò che l’album in sé offre all’ascoltatore è una vera e propria esplosione di energia, evidente fin dalla prima traccia, la trascinante Summer, la quale tradisce un lato ancor più vigoroso e «arrabbiato» del songwriting dei Minds; un po’ come accade con In Dreams, che esemplifica alla perfezione la fusione tra il sound rock più puro, arricchito dalle tipiche inflessioni stilistiche di Jim e compagni, e le nuove sfumature elettroniche dal gusto vagamente vintage. Da parte sua, Silent Kiss appare come un brano giunto direttamente da una playlist anni 80, ma rimaneggiato e «aggiornato» tramite l’uso di campionamenti dance che gli conferiscono un gusto da discoclub, pur senza nulla della faciloneria commerciale che ciò potrebbe comportare.
Così, sebbene non ci sia nulla di nuovo sotto il sole, la band mostra comunque di essere ancora in gran forma: a sottolinearlo basta un pezzo come l’ispirato Barrowland Star – il quale, pur mantenendo una struttura ritmica (e un ritornello dai toni epici) in stile inconfondibilmente «à la Simple Minds», di primo acchito potrebbe sembrare firmato da David Bowie, visto che perfino il cantato di Kerr ricalca da vicino lo stile vocale del Duca Bianco; il che, complici finezze quali le potenti chitarre elettriche e l’elegante coda strumentale a base di archi, dà vita a una combinazione vincente, facendo di questa canzone una delle migliori del CD.
Del resto, il sound elettronico tanto amato da Kerr & Co. – e da loro già ampiamente esplorato fin dai tempi di Néapolis (1998) – raggiunge qui il suo picco, come si può vedere in brani quali Utopia (quasi una versione «aggiornata» di classici del calibro di Ghost Dancing) e The Signal and the Noise: e se nel caso di queste due tracce ci troviamo davanti a pezzi riusciti, ma dalla linea melodica purtroppo un po’ risaputa, ecco che la title track Walk Between Worlds rappresenta invece un’esplosione di «electronica» nel più puro stile del pop-rock angloamericano di inizio millennio, ma con in più tutta l’inconfondibile grinta e allusività dei Simple Minds – i quali, infatti, completano il tutto con un grande tocco di classe: la perfetta quanto improbabile fusione tra la sezione ad archi (che offre anche una splendida «intro» e «outro» al brano) e gli eccellenti assoli di chitarra, perfetta conclusione a una melodia estremamente coinvolgente. Si cambia invece parzialmente registro con Angel Underneath My Skin e Sense of Discovery, ballatone dal carattere di «tormentoni» garantiti, che costituiscono quasi un’autocitazione dei primi Simple Minds e nulla hanno da invidiare a classici del passato quali See the Lights o Let There Be Love.
Certo, c’è da dire che, sebbene ogni singolo pezzo della tracklist di Walk Between Worlds suoni a dir poco impeccabile dal punto di vista formale – sound, arrangiamenti e vocals sono di ottima fattura, così come l’eccellente produzione firmata Wright & Goldberg – è tuttavia difficile negare come, in linea generale, a mancare sia quella struggente intensità riscontrabile nel repertorio anni 80-90 della band. Tuttavia, non si può che ammirare la capacità dei Simple Minds di rinnovarsi, rimanendo fedeli a loro stessi ma riuscendo comunque ad aggiornarsi e a fondere le caratteristiche principali dello stile che li ha resi celebri (per intenderci, quella particolare forma di raffinato pop-rock datato Eighties riscontrabile in dischi come New Gold Dream e Street Fighting Years) con sonorità non solo attuali, ma anche estremamente fresche e gradevoli. In tal senso, i fan possono certo essere soddisfatti di questo ritorno sulle scene, e attendersi nuovi, futuri sforzi di ottima fattura da parte del loro gruppo preferito.