A manifestazione ormai conclusa, la 31esima edizione del Festival Internazionale del Teatro (FIT) ha lasciato come sempre un’interessante scia di aspettative sugli sviluppi della scena contemporanea, con i suoi nuovi linguaggi e le sue spiazzanti modalità. Sommando le proposte in cartellone, quest’anno il peso specifico del FIT ha privilegiato la scena più adulta con un’equa ripartizione fra danza e teatro con una linea editoriale scelta dalla direzione artistica che è riuscita a concentrarsi sulla scrittura al femminile senza piegarsi a facili tendenze. Ci piace certamente ricordare Love Me dell’argentina Marina Otero, accanto a produzioni svizzere come Uprising di Tatiana Julien e Chasing A Ghost di Alexandra Bachzetsis. Spettacoli di danza contemporanea che hanno anche contraddistinto la prima metà del Festival, aderenti al tema centrale dedicato alla donna, alla sua inclusione, in contrasto con l’espressività e le logiche ancora in gran parte dominanti del mondo maschile. È interessante notare lo sforzo voluto nel dare un medesimo orientamento agli spettacoli della sezione rivolta al pubblico dei più piccini, scegliendo giovani firme della coreografia femminile. Come per Le Mileu di Valentina Paley o Ha Ha Ha di Eugénie Rebetez.
Non abbiamo seguito tutte le proposte di Young & Kids, cinque in tutto se consideriamo anche la scoppiettante produzione di Tabea Martin. Ma un’idea ce la siamo comunque fatta. Soprattutto tenendo conto di spettacoli dove la fantasia creativa viene lanciata a briglia sciolta pronta a confrontarsi con un pubblico di ogni età. In questo senso ha destato una certa sorpresa l’assenza di bambini per la rappresentazione di Ah Ah Ah della Rebetez, un assolo di bravura del performer palestinese-americano Tarek Halabi: poco o nulla in scena per una cavalcata nella fantasia. Un debutto insolito per un artista abituato a confrontarsi con l’esuberante rumorosità dei bambini.
Anche la parte teatrale adulta del FIT ha mantenuto la coerenza editoriale. Già con Amor fugge restando (Loving Kills) di Anahì Traversi in scena con Simon Waldvogel. Terzo capitolo del Collettivo Treppenwitz nella ricerca sull’amore. Un esercizio dove viene dato spazio alla parola scritta della Traversi riletta con l’aiuto di Francesca Garolla. È uno spettacolo che merita di essere rivisto per poterne meglio apprezzare le qualità. Pensiamo infatti soprattutto alla sua parte centrale che sostituisce le pur efficaci narrazioni degli attori affidandole a silenziose figurazioni, quadri amorosi in maschera che nulla aggiungono a un’interessante progetto di scrittura.
Sorpresa e ammirazione ha destato Dr Churz, Dr Schlungg und Dr Böös della zurighese Johanna Heusser che è riuscita a raccontare tenerezza e amore sfruttando il paradosso del contrasto. In scena due nerboruti atleti si allenano per lo Schwingen, la lotta svizzera. Come un rituale laico consumato sull’altare di un classico ring di segatura allestito nel TeatroStudio del LAC, il racconto si snoda partendo da una leggenda urana con una sorta di danza atipica fra metodici movimenti ginnici, il racconto e il canto di uno Jodel urlato bocca a bocca, come in una celebre azione di Marina Abramovic con Ulay. Fino all’evocazione di un quadro montagnoso, con cime di segatura avvolte da fumi di ghiaccio secco. Un progetto audace, frutto di un compromesso tra originalità e narrazione, potenza virile e metafora di dolcezza.
Tortuoso invece il percorso del ritorno narrativo al FIT di Manuela Infante con Como convertirse en piedra, un ambizioso progetto filosofico incentrato sull’uomo, la memoria e la sua fugacità, concetti espressi attraverso una complessa e prolissa tipologia teatrale. La Infante punta sulla sostanza simbolica con tre attori e manichini per un universo dialettico profondo che tiene in sospeso le azioni rivelatrici con una storia di sfruttamento economico. Bogdaproste di Catherine Bertoni de Laet e In the Middle of Nowhere di Kristien De Proost hanno siglato questa edizione.
Il primo può definirsi un figlio della Scuola del Piccolo di Milano diretto da Carmelo Rifici e prodotto dal LAC. Un esercizio accademico, molto scolastico su cui prevale un piano recitativo ancora acerbo, accordato su note troppo ambiziose per una tragedia famigliare dai toni cupi.
Altra musica con la brava De Proost in scena con il brasiliano Fred Araujo. L’artista fiamminga aggiunge nuova linfa alla sua cifra surreale (dopo On Track che il FIT aveva ospitato nel 2016) giocando sul paradosso dei centri: dove situarli, qual è il loro senso in rapporto con tutto il resto, con la vita.
Una performance originale, recitata in bilico su un piede, suo centro di gravità temporaneo. Finché le si aggiunge il partner, giusto in tempo per animare una panne tecnica che ha messo in primo piano le qualità degli artisti restituendo alla platea una carica positiva concludendo nell’improvvisazione un festival che ha mostrato parecchie risorse creative e ancora tanta voglia di sorprendere.