Sin dai suoi esordi, il cantautore australiano Nick Cave (nell’immagine) – senz’altro una delle voci più raffinate e interessanti dell’intera scena rock internazionale – ha sempre mostrato una fortissima tensione verso la spiritualità, sovente interpretata e analizzata attraverso la lente della religione cristiana: nello specifico, delle fortissime potenzialità narrative offerte dalla Bibbia e, in particolare, dalla parabola di Gesù Cristo, che per Cave è esempio non solo di universale figura di riferimento, ma soprattutto dell’eterna opportunità di redenzione, unica forma di salvezza all’interno di un mondo terribilmente caotico e spietato. E si può tranquillamente affermare che dopo l’improvvisa morte del figlio quindicenne Arthur, avvenuta sette anni fa, la sua musica abbia preso a esplorare in modo ancor più profondo e pervasivo la dimensione spirituale, quasi affidandosi a essa per trovare un modo di convivere con un dolore pressoché insopportabile: un’attitudine che ha dato vita a strazianti capolavori quali Ghosteen (2019), inciso con la formazione dei Bad Seeds al completo, e Carnage, realizzato a quattro mani con Warren Ellis nel 2021.
Questa volta, però, Cave si spinge ben oltre, arrivando a quella che si potrebbe considerare una vera e propria «estremizzazione» della valenza spirituale del proprio lavoro: infatti, come il titolo stesso suggerisce, il nuovo Seven Psalms si compone di sette salmi, recitati con grande intensità dalla voce di Nick – qui più profonda e reverenziale che mai –, la quale si dispiega con grazia al di sopra di un tappeto sonoro suggestivo quanto discreto, anche stavolta opera del sempre eccellente Warren Ellis. E naturalmente, trattandosi di Nick Cave, i «salmi» in questione sono composizioni originali, che traggono spunto e ispirazione dal canone biblico per poi, però, distaccarsene tramite un’immersione nelle liriche visionarie e la poetica immaginifica dell’artista: un esempio è Have Mercy On Me, il cui incipit è costituito da una classica citazione delle preghiere della tradizione cristiana («have mercy on me, Lord, I have done wrong»), per poi decollare in direzioni inaspettate, grazie all’effetto dell’inconfondibile cifra narrativa di Cave.
Così, nonostante le premesse di questo lavoro possano definirsi come particolarmente azzardate, anche stavolta, come sempre accade con qualsiasi cosa nasca dalla penna di Nick, il potere evocativo di queste brevi tracce è, naturalmente, fortissimo; risulta evidente come l’artista australiano sia un maestro nel coniugare una grande intensità emotiva (sia dal punto di vista lirico che musicale) e l’apparente semplicità che conduce infine alla perfezione dell’insieme – in una perfetta combinazione di arrangiamenti estremamente lineari e vocals misurati e aggraziati, infusi di vibrante sacralità: il tutto privo di alcun tipo di fronzolo o distrazione. Del resto, non è un caso che, con innegabile lucidità, un critico inglese abbia definito quest’album come «un altro lavoro nato dalla forza centrifuga del dolore di Cave»: in effetti, Seven Psalms è un album a cui solo il continuo calvario emotivo a cui l’artista è sottoposto avrebbe potuto dare vita, ed è lecito supporre che la nuova, recente disgrazia abbattutasi su Cave appena tre mesi fa – la morte di un altro figlio, il trentunenne Jethro, da anni emotivamente instabile – abbia funto da catalizzatore per questo progetto (si veda Such Things Should Never Happen, parabola sulle madri costrette ad affrontare un simile dramma). Seven Psalms riverbera così di forze contrastanti, come a rappresentare la lotta tra la fredda razionalità e l’istintiva violenza insita nel dolore più crudo e devastante – una lotta che può concludersi vittoriosamente soltanto grazie alla tensione verso qualcosa di superiore, in grado di redimere l’inadeguatezza della dimensione terrena.
Certo, in quanto nuovo lavoro discografico di una personalità del calibro di Nick Cave, Seven Psalms presenta un problema che molti non riusciranno probabilmente a ignorare: il fatto di non potersi davvero considerare come un album musicale, trattandosi piuttosto di una cosiddetta «spoken word rendition», eseguita totalmente in recitativo con il solo, discreto accompagnamento della musica di fondo – che, nel caso della traccia finale, Psalm Instrumental, diviene l’unico elemento in gioco; del resto, la pubblicazione di questo disco è stata resa possibile solo dallo status di Cave, in quanto un personaggio meno famoso sarebbe certo stato dissuaso da un simile impresa, visto il suo (praticamente nullo) potenziale commerciale.
Eppure, è difficile non vedere questo progetto come un regalo; un altro, sentito dono da parte di Cave, che ci offre la possibilità, anche in tempi convulsi come questi, di soffermarci su qualcosa di impalpabile e apparentemente etereo – e, proprio per questo, estremamente prezioso: un riavvicinamento a quell’umana debolezza che, paradossalmente, costituisce il legame più profondo con il divino e la sua dimensione