Dopo due anni di formula a distanza per la pandemia, il Trento Film Festival, dal 29 aprile all’8 maggio, è tornato a riempire le sue sale. Non sono state poche le proiezioni e gli eventi da «tutto esaurito» per l’edizione chiusasi l’8 maggio che ha celebrato i settant’anni di vita dello storico appuntamento con il cinema di montagna. Sette decenni, ma gli schermi non hanno mostrato nemmeno una ruga. Anzi, la riscoperta della natura e dell’effetto tonificante dell’attività all’aria aperta, ha attirato migliaia di appassionati.
La brillante storia del festival è finita anche in galleria con una sorprendente esposizione intitolata Scalare il tempo. Una galleria nel senso reale e figurato del termine: in un vecchio tunnel dismesso che fiancheggia il corso del fiume Adige, i visitatori hanno potuto rivivere i momenti più rappresentativi della rassegna internazionale. Un’infilata di immagini, suoni e libri, incorniciata dai manifesti ufficiali di ogni edizione.
Si scopre così che il suggestivo manifesto dell’edizione 2022 disegnato da Milo Manara, uno dei più grandi fumettisti e illustratori italiani, è una sorta di premio di consolazione dopo quello realizzato per l’edizione del 1997, che ritraeva una seducente figura femminile, poi sostituita in extremis da un più puritano disegno dell’illustratore francese Samivel. Quest’anno Manara, di origini altoatesine, ha accettato l’invito degli organizzatori e ha proposto una versione meno provocatoria del manifesto bocciato. A convincerlo è stata l’urgenza dei tempi in ambito climatico. La minaccia dell’equilibrio della natura ha trasformato l’attraente figura femminile del manifesto censurato in una «creatura lieta, ma impaurita e diffidente: prima ci seduceva, ora ci guarda come intrusi», parole di Manara.
E il cinema di montagna in questi tempi difficili come sta? È riuscito a rinascere dopo due anni di produzioni bloccate? La risposta vista sugli schermi è un sì. La qualità del film proposti è stata molto alta. La novità più importante è però un netto cambiamento di rotta nella cinematografia di genere: le vette e la natura sembrano essere diventate un semplice scenario. Uno sfondo che, pur nel suo innegabile fascino, mette in risalto vicende umane di valore universale. Storie in cui – almeno stando ai giudizi della giuria internazionale – l’alpinista non emerge come un prototipo umano degno di grandi riconoscimenti. Spiccano piuttosto le vite di pastori, artisti, donne e uomini impegnati in viaggi spirituali e altre individualità che vivono la montagna non come l’arena di un circo verticale, quanto piuttosto come un territorio che permette di guadagnarsi da vivere o un ambiente che alimenta l’anima. Appartiene a questo filone la storia dei due gauchos cileni, Joaquin e Victor, che partono dalle selvagge montagne patagoniche per lavorare nell’industria dell’allevamento di pecore nel Nord America. Con il film Gaucho Americano il regista cileno Nicolàs Molina si è aggiudicato la Genziana d’oro per il miglior film. La tenera e ironica interpretazione del mito del cowboy vissuto attraverso gli occhi dei due gauchos di generazioni diverse, ha convinto esperti e pubblico.
L’alpinista tradizionale è senz’altro il grande assente del palmarès finale. A imporsi nella categoria Alpinismo, popolazioni e vita di montagna è infatti stato il documentario del regista cinese Jin Huaqing. Con il suo Dark Red Forest racconta la vita di 20’000 monache buddiste di un monastero su un altopiano in Tibet. Un racconto che emoziona per il suo splendore visivo e per l’indagine spirituale. Stesso scenario, gli altipiani tibetani, per la Genziana d’oro – categoria esplorazione o avventura, andata al poetico e suggestivo viaggio del fotografo Vincent Munier e dello scrittore Sylvain Tesson sulle tracce del leopardo delle nevi.
La panthère des neiges della regista francese Marie Amiguet emoziona per la qualità delle fotografie scattate da Munier e fa riflettere grazie alle parole profonde dell’avventuriero Teysson. Scorrendo il lungo elenco dei premi minori colpisce la latitanza dei film con una chiara connotazione alpinistica. Eppure qualche spunto ci sarebbe stato come quello dell’avvincente La liste: everything or nothing, con gli sciatori estremi svizzeri Jérémy Heitz e Sam Anthamatten o come il toccante The Last Mountain che ritraccia la tragica storia famigliare degli alpinisti britannici Alison Hargreaves e Tom Ballard, madre e figlio, entrambi morti in Himalaya.
L’edizione 2022 del Festival ha inaugurato anche una nuova sezione che apre le porte ai produttori giovani attivi sul Web e soprattutto sul canale YouTube. In questa nuova categoria a finire sul gradino più alto è stato lo scenario della Valle Bedretto, con il video Iceberg Lake in Switzerland di Bruno Pisani. Il fenomeno degli iceberg formatisi nel laghetto glaciale sul Passo del Geren, racconta al pubblico giovane un fenomeno che testimonia l’impatto del riscaldamento globale sull’arco alpino. Dall’alto dei suoi settant’anni Trento ha insomma voluto premiare la riflessione sul nostro vivere tra le montagne più che il tocca e fuggi della prestazione, del grado, dell’adrenalina. Una visione diversa e che sembra allinearsi a un modo nuovo e più diffuso di vivere la natura e la montagna.
Organizzatori e giuria hanno messo sul piedistallo natura, ambiente, cultura e società. Quando hanno poi voluto onorare le storie di puro alpinismo lo hanno fatto per l’intensità di alcune storie umane. La conferma che anche gli alpinisti sono uomini e donne come altri.