È da anni che i telefilm, o meglio le serie televisive, tentano di uscire dal limbo (o dall’inferno) della televisione-spazzatura per trovare una loro dignità, anzi una valida e specifica cifra estetica. Merito anche del fatto che, nei casi migliori, esse hanno assunto una valenza del tutto cinematografica, e non solo per la dilatazione della loro durata a quella di un film, ma proprio per l’attenzione che esse portano sia alla qualità del racconto sia agli aspetti tecnico-estetici della narrazione. È un discorso che vale per un numero sempre maggiore di prodotti, ma comunque all’interno di un genere che continua a offrire purtroppo, anche sulle emittenti principali (servizio pubblico, evito di citare esempi), scampoli di televisione dell’orrido e del banale.
Tutto questo per segnalare, e per consigliare, la frequentazione di due serie britanniche di livello (e di successo), accomunate dal fatto di presentare episodi lunghi (ca. 100 minuti) e di giocare con misura ed eleganza sul meccanismo che introduce una storia che travalica e attraversa i singoli episodi, facendo di ogni serie, e di tutte le stagioni, una sorta di domesticamente coinvolgente suite narrativa.
Mi riferisco a Il giovane commissario Morse (ITV; dal 2013, 30 episodi, su Paramount Network dal 2019) e Vera (ITV; dal 2011, 40 episodi, su Giallo dal 2016). In entrambi i casi, si tratta di detective stories atipiche, basate su personaggi letterari (da Ann Cleeves per Vera; da Colin Dexter per Morse), e che si caratterizzano per una grande e piacevole complessità a livello di racconto e di riferimenti, con un intrecciarsi di sotto-storie e di rimandi efficaci al contesto storico e sociale in cui la storia principale si svolge. Nel caso di Vera, siamo nel nord dell’Inghilterra di oggi, tra brughiere ventose e in un contesto operaio con pesanti annunci di crisi e di smobilitazione; per Morse, nella pre-swinging Oxford degli anni Sessanta e Settanta, riproposta in ogni suo aspetto con cura e precisione maniacali.
Al di là dell’intreccio poliziesco principale, molto ben organizzato e con una dinamica mai banale, vi è una grande attenzione ai personaggi, i cui caratteri sono assai stratificati, e la cui dinamica fa emergere vicende personali spesso paradigmatiche della situazione storico-sociale in cui il fatto si svolge. Inutile aggiungere che, a partire dai protagonisti (Brenda Blethyn, una scarruffata, irascibile ma umanissima Vera; Shaun Evans, enigmatico e implacabile Morse) fino all’ultimo dei comprimari, tutti gli attori sono sempre efficaci e recitano con grande misura e adesione al clima e al «sapore» della storia narrata.
Questi prodotti hanno il vantaggio di proporre, all’interno di un genere ormai canonico come il poliziesco, uno sguardo diverso, un po’ più intimo e riflessivo, un ritmo narrativo e una complessità di intreccio che riporta a una fruizione diversa, magari «antica», comunque rigenerante dopo tanto ritmo da videogioco senza un domani né un senso vero.