«Sento Beethoven fisicamente»

A colloquio con il grande maestro magiaro Andras Schiff, i cui genitori vissero sulla propria pelle la follia nazista
/ 23.01.2017
di Enrico Parola

Il 27 gennaio è il compleanno di Mozart: «Come diceva il grande pianista Arthur Schnabel, un autore troppo facile da suonare per i bambini e troppo difficile per i grandi»; Andras Schiff lo ribadisce convinto e soprattutto consapevole: il maestro magiaro, 63 anni compiuti a dicembre, è uno dei massimi pianisti d’oggi e di Amadeus ha eseguito e inciso tutte le Sonate e tutti i Concerti, nella doppia veste di direttore e solista con la Camerata Salzburg.

Ma per Schiff quella data non investe solo la sua dimensione di musicista: il 27 è la Giornata della Memoria e la sua storia familiare è legata a doppio filo con la tragedia dei lager nazisti. «Entrambi i miei genitori erano ebrei di Debrecen e ognuno di loro, prima della seconda guerra mondiale, aveva già una sua famiglia; furono tra i primi ebrei ungheresi ad essere deportati dai nazisti, nel 1944» racconta Schiff «Mio padre era un dottore, quando arrivò nel lager continuò a fare il medico e così si salvò; ma sua moglie e il loro figlio di quattro anni furono spediti ad Auschwitz e lì morirono. Mia madre aveva un marito giovane che venne mandato in un campo di lavoro in Ucraina; lì scoppiò un’epidemia di tifo, lui e gli altri contagiati vennero rinchiusi in alcune baracche cui diedero fuoco, facendoli bruciare vivi».

Una tragedia incancellabile, illuminata da casi fortuiti e fortunati che Schiff non esita a definire miracoli: «La sopravvivenza di mia madre fu un grande miracolo: anche lei, come la moglie di mio padre, era stata destinata ad Auschwitz; era già sul treno, ma gli alleati bombardarono le rotaie interrompendo i collegamenti e il treno venne deviato vicino a Vienna, a Magdalenenhof, un campo di lavoro e non di sterminio: tutti i passeggeri di quel treno sopravvissero». Ricordi, o meglio racconti tragici che mamma e papà gli confidarono negli anni; «poco alla volta, fecero lo stesso con la fede. Entrambi erano ebrei osservanti, ma all’inizio non mi trasmisero nessun insegnamento religioso»; dopo il nazismo arrivò il comunismo «e in Ungheria sotto il comunismo tutte le religioni erano soppresse, così i miei genitori non vollero consegnarmi una fede che li aveva fatto tanto soffrire e che avrebbe potuto causare parecchi problemi anche a me. La mia coscienza della mia identità ebraica è cresciuta col passare degli anni». E con gli episodi.

 Il termine «ebreo» gli venne insegnato da un bambino di tre anni: «A Budapest erano rimasti centomila ebrei, io ero l’unico bambino del quartiere, tutti gli altri erano cristiani e protestanti; i rapporti erano buoni perché papà era un medico stimato, ma una volta, mentre giocavo a pallone con i soliti amici, un bambino mi disse che non potevo più giocare con loro perché ero ebreo. Io non sapevo neppure che cosa significasse, lui mi disse che gli ebrei avevano ucciso il loro Gesù. Tante volte mi sono chiesto da chi quel bambino così piccolo avesse ascoltato parole simili».

Strascichi di nazismo e comunismo, ma Schiff ritiene una fortuna essere nato a Budapest «proprio nel 1953, l’anno in cui morì Stalin; gli anni peggiori erano passati, l’Accademia della città era un’oasi: non c’era ancora libertà di movimento o di parola, ma la musica, essendo più astratta di qualunque altra arte, non poteva essere controllata in modo totale. Arrivò addirittura un mito del pianoforte come Sviatoslav Richter, in migliaia si misero in coda per comprare i biglietti, dovette intervenire anche la polizia». Come insegnante ebbe György Kurtág, uno dei massimi compositori dell’epoca: «Alla prima lezione mi tenne per due ore e mezza su un’Invenzione a tre voci di Bach, un brano che dura due, tre minuti; non riuscivo a suonare tre battute che mi interrompeva: con lui capii che la musica non è una questione di vita o di morte, è qualcosa di più».

Nonostante cotanto maestro, Schiff non ha mai pensato di diventare compositore: «Non avevo talento e pensavo che ci fosse già abbastanza brutta musica al mondo…». Pacata ironia, intelligenza tagliente: Schiff guarda con lucidità lo stato dell’arte della musica classica: «Alcuni colleghi non accettano il fatto che la classica sarà sempre per una minoranza; lo sarà, ma non è così piccola ed è comunque centinaia di volte maggiore rispetto a quella che applaudiva i Mozart, i Bach e i Beethoven». I numeri non contano, neanche quelli che vorrebbero descrivere la crisi della classica: «In crisi non è la classica ma le compagnie discografiche, che hanno esagerato con le incisioni: perché permettere a un direttore di registrare tre, quattro volte le sinfonie di Beethoven, tra l’altro in modo quasi uguale? Non so se le major sopravviveranno, ma non penso sarà necessariamente una cosa negativa». 

Ciò che rimarrà sempre saranno i giganti, a cominciare da Bach: «È il centro e tutta la musica che amo è legata a lui. Bach ha creato un sistema in cui ogni cosa, spirituale, emotiva e fisica, è connessa alle altre simultaneamente; c’è una grande economia di mezzi, ogni nota è importante e basta togliere un elemento che tutto collassa. Non è così in Liszt: è ungherese come me ma non riesco a identificarmi nella sua musica, la suono male perché non la amo». Si identifica invece in Beethoven, di cui ha inciso e suonato più volte tutte le 32 Sonate, come fatto anche con quelle di Schubert e Schumann: «Mi sento totalmente assorbito, mi sembra di sentire come lui, fisicamente e mentalmente. Chopin è un grande, ma non lo sento amico; Beethoven sì, è un amico generoso che mi arricchisce ogni volta che lo suono».