Bibliografia
Maria Borio, Dal deserto rosso, Edizioni Stampa 2009, 2021


Segnali dal deserto rosso

Una breve ma illuminante raccolta di versi della giovane Maria Borio
/ 11.10.2021
di Guido Monti

Per i quaderni curati da Maurizio Cucchi è uscita tra le altre, quest’anno, una significativa plaquette della poetessa Maria Borio dal titolo pregno di rimandi cinematografici e soprattutto simbolici: Dal deserto rosso; sì perché quel deserto pensato da uno dei più visionari registi del secolo passato, Michelangelo Antonioni, in qualche modo torna a visitarci con la sua carica straniante, nei versi allungati, quasi in forma di prosa della poetessa umbra, che appunto ci restituisce, attraverso queste dense pagine, frame visivi, carrellate lunghe, dell’inizio di un altro tempo del disagio, quello pandemico, che ha cambiato la storia delle nostre relazioni, così come sempre le si sono intese.

E quella disintegrazione identitaria, che già soffiava negli anni della crescita esponenziale della macchina-fabbrica e che andava mangiando irreversibilmente le linee delle antiche geografie urbane, ora appunto la ritroviamo nel buco interiore provocato dal virus: «…/Ti scrivo da una zona rossa, ed è questa la verità:/i confini sono tracciati, il rosso ha riempito lo spazio,/vuoto, neutro, senza uscita, e tutti sono come me,/punti soli, senza illusione, nella prima primavera/del millennio che al tempo sta cambiando la faccia./...».

E il deserto di allora, reimmaginato nella plaquette, bene si distende nella scrittura di Borio, la quale da attenta antropologa dei segni stabilisce nessi con le zone rosse del 2020, che come cerchi sempre più ampi invasero letteralmente tutti i nostri spazi. Ed ecco che in questa nuova èra, quei grandi spazi aggregativi pensati dalle comunità per promuovere anche socialità divengono d’un colpo dismisura di incomunicabilità e lontananza.

Certo il virus in queste pagine è portatore di tragedia, ma per la poetessa si fa strumento anche di riflessione indispensabile per l’effetto «sindemico», di sistema, che provoca; e riemergono così le nostre fragilità sepolte e occultate da decenni di magnifica evoluzione tecnologica, oggi più che mai effimera e fragile come i suoi creatori. E la piaga odierna, opera per la poetessa una crasi dai caratteri non ancora ben definiti, tra il vecchio individuo del profitto, dell’utile, e il nuovo che verrà, costretto forse per salvare sé e la comunità a divenire altro e forse migliore: «…/…Ho sognato tanti corpi,/i codici, i caratteri, la logica del profitto ancora impressi/nelle rughe. Poi c’era una cosa più lontana, una scintilla,/un volto, un sogno lucido: il cambiamento?.../…».

Il virus quindi, come momento lungo di chiusura, restringimento, isolamento, a tutela anzitutto di sé stessi e della comunità e certo mi vien da pensare, come i protagonisti del Decameron trovarono rifugio dalla peste nelle campagne circostanti Firenze, anche la poetessa perugina sembra scrivere una riflessione a tutto campo su malattia e uomo, da una campagna però quasi intatta, non toccata dalla morte, anch’essa piena di rimandi simbolici, di vita stavolta. Luoghi custodi di memoria, che sanno parlarci attraverso la ricostituzione di figure, che come numi aleggiano nel sottobosco, tra i rami, negli assi della casa: «A guardia  della porta chiusa l’ulivo secolare./I frutti duri cadevano, il geco faceva una corsa/ ad ostacoli. Ricordi? Immaginavamo che la chiave/potesse trasformarsi nella sua coda fluida: aprire/senza forzare? Una voce d’uomo gridava: “Gira,/girate”, ma era già muta- …/…».

Il quieto esistere di generazioni di animali, non toccate assolutamente dalla nuova peste, così come lo spazio della flora alberata con i suoi uccelli, lampi colorati, quasi metafisici, a squarciare gli spazi del cielo e quei suoni prodotti che riportano agli evi antichi, più antichi dell’uomo stesso: «…/Allora il pavone dei due vecchi nella casa grigia/vola sul tetto, allunga la testa verso l’antenna,/apre e chiude la coda e grida per un mondo esistito/molto prima del nostro…/…». Il ritmo della ruralità quindi, come spazio di ripensamento, torna a dare nuovo equilibrio ai suoi abitanti e suggerirlo anche ai lettori di queste pagine. Si affaccia la speranza di un vivere altro, mutato sì per sempre rispetto al precedente ma avente però un baricentro forte e inscalfibile, nell’antica ciclicità delle stagioni, nel loro codice remoto, che sembra rilanciare per paradosso l’individuo, sulla base di questa consapevolezza, in una nuova antropologia dell’esistere, come ha saputo bene immaginare Maria Borio in questa breve ma illuminante raccolta.