«Sé stesso»: quando le certezze vacillano

Ma in fin dei conti l’accento ci vuole oppure no? Le opinioni degli esperti divergono
/ 16.03.2020
di Laila Meroni Petrantoni

«O tempora, o mores», esclamò Cicerone, sapendo già che nei secoli a venire il genere umano lo avrebbe citato rimpiangendo il passato. «Che tempi! Che costumi!» quelli che stiamo vivendo, che strisciando minano le mie certezze. Mai e poi mai, dai banchi di scuola, avrei pensato di dover un giorno mettere in discussione le preziose regole della lingua italiana pazientemente trasmesse dal maestro a noi frugoli.

Il contenzioso? Di dilemma si tratta, innanzitutto. Perché a scuola, qualche decennio fa, si insegnava che il pronome personale riflessivo sé (accentato principalmente per distinguerlo dal se congiunzione) perde l’accento quando seguito da stesso o medesimo, quindi se stesso. Così è stato per la sottoscritta (e mi par di capire, per molti altri fruitori della lingua di Dante) per anni e anni. Finché, come una slavina che sembra iniziare dal nulla, la massa di sé stesso rotolante a valle è cresciuta a dismisura: nei testi ci si imbatte sempre più frequentemente – e ormai quasi unicamente – nella versione accentata. Sfiorando il panico, poi, un giorno mi sono accorta che, come un Grande Fratello, il programma di elaborazione di testi del computer si impone sulla volontà della scrivente (e sulle sue certezze) segnalando quasi come fosse un errore la versione priva di accento. «Ah sì?», è scattata la sfida indignata, alimentata dal dubbio che come un tarlo rodeva sempre più: «e allora, che parlino gli esperti!»

L’onorevole e onorata Accademia della Crusca si è chinata sulla faccenda dopo innumerevoli sollecitazioni degli utenti disorientati (ah, ecco, mal comune mezzo gaudio) e ha individuato «due tendenze diverse». «Alcuni evitano l’accento», scrive Manuela Cainelli per l’Accademia, citando a questo proposito ad esempio il Sabatini-Coletti Dizionario della lingua italiana; notando inoltre che Alessandro Manzoni ha impiegato la forma non accentata nel Fermo e Lucia ma quella accentata nelle due edizioni de I promessi sposi, l’Accademia conclude salomonicamente che «è preferibile considerare non censurabili entrambe le scelte, mancando in realtà una regola specifica».

Opposti al fronte dei possibilisti, tuttavia, si schierano molti assolutisti. Negli stessi anni in cui la sottoscritta si abbeverava di certezze grammaticali dai banchi di scuola, la guida Come parlare e scrivere meglio diretta dall’intoccabile Aldo Gabrielli proclamava l’anatema contro il se non accentato, scrivendone come di «norma assolutamente illogica», condannando come «inutile e irragionevole andar poi a cincischiare casi e sottocasi» e intravvedendo già quaranta anni orsono il tramonto dell’odiata regola. Una «assurda pseudoregola», la definisce ancora nel suo Si dice o non si dice?: «Sono o non sono sottigliezze cervellotiche? […] Dunque, in nome della chiarezza, lasciamo sempre il suo bell’accento!» Certo, a ben guardare è inutile complicarsi la vita. Con tutto il rispetto, però, fatico a ingoiare il boccone amaro. Vedrò di adattarmi ai tempi, che del resto il correttore del PC mi ricorda costantemente. Morale della favola: le certezze incrollabili non sono eterne.