Dove e quando
Kader Abdolah incontrerà il pubblico in occasione della 16esima edizione di Babel (Festival di letteratura e traduzione che andrà in scena a Bellinzona dal 10 al 12 settembre); l’appuntamento con Abdolah, intervistato da Goffredo Fofi, è per sabato 11 settembre al Teatro sociale, ore 18:00. Info: www.babelfestival.com

Kader Abdolah insieme alla figlia Bahar in un'immagine del 2006 (Wikipedia)


Scritture di dolore

A colloquio con Kader Abdolah, scrittore nato in Iran ma da molti anni esule in Olanda, che sarà fra gli ospiti del Festival di traduzione Babel
/ 06.09.2021
di Simona Sala

Abodolah è un cantastorie d’altri tempi, un narratore che ha fatto della semplicità la propria cifra. Una semplicità però che è tale solo al primo sguardo, perché tra le pieghe di una scrittura immediata, ma con storie che si intrecciano a volte sovrapponendosi, si nascondono profonde vicende di dolore e di vita, mescolate alla Storia di quell’Iran che Abdolah fu costretto a lasciare decenni or sono.

Dal 1988 Abdolah vive in Olanda dove, in una sorta di percorso parallelo, la crescita esponenziale della sua validità letteraria è andata di pari passo con un pensiero e un cuore sempre rivolti al Paese natale. Per superare lo strazio della lontananza imposta, Abdolah scrive. E ogni volta, con ogni singolo libro, rigorosamente scritto in olandese, da La casa della moschea, passando per Uno Scià alla corte d’Europa, senza naturalmente dimenticare Scrittura cuneiforme, Il re, e molti altri (tutti editi da Iperborea), gli riesce di trascinare il lettore nel cuore di vite appassionanti e pulsanti, lontane dalle nostre eppure familiari, perché fatte di sentimenti ed emozioni che prima di tutto appartengono al genere umano.

Abdolah ci saluta dall’altra parte dello schermo, che subito si riempie per la pregnanza di un artista complesso e molto strutturato, gioviale e denso di personalità, a partire dagli ispidi baffi, che lo rendono inconfondibile.

Lei vive da molti anni in Olanda, pur essendo nato in Iran. Come ci si sente nei panni di osservatore esterno del proprio Paese?
Vorrei fare un esempio importante che riguarda mia madre. Lei è molto anziana ed è affetta da demenza, a volte mi riconosce, altre no. Sono la persona più importante della sua vita, eppure non sono nella condizione di sedermi al suo fianco e di parlarle. Grazie al fatto che posso telefonarle, abbiamo una specie di contatto, ma si tratta di una finzione: la realtà è che lei è in Iran e io sono qui.

Le cose, dunque, accadono nella nostra immaginazione, ed è doloroso, oltre a non essere autentico. La stessa cosa accade per la mia nazione. Là stanno succedendo delle cose importanti, ma io sono qui, e ho a disposizione solo la mia penna. Il potere dello scrittore è importante: da circa trent’anni siedo allo stesso posto cercando di trasformare in potere la mia impotenza. Per me l’unico modo di rappresentare le cose, sentendole così più vicine, è scriverle.

Forse ciò è dovuto anche al fatto che lei si trova alla giusta distanza dalle cose di cui narra.
Non è importante che io non sia al fianco di mia madre, perché può esserci ad esempio mia sorella. Mi trovo però alla distanza giusta per osservare il Paese, la sua lingua, la sua società e la sua politica. La distanza è un elemento estremamente importante per ogni scrittore perché gli conferisce una specie di potere divino.

Lei oggi è uno scrittore affermato, ma è giunto in Olanda da immigrato, dopo avere vissuto sulla propria pelle la persecuzione politica.
L’immigrazione ti dà potere, ma solo se sei uno scrittore… Ora conosco la società olandese, la sua lingua e i suoi costumi, e ciò mi conferisce potere. Ho modo di fare dei paragoni con il mio Paese di provenienza. La gestione del problema dell’immigrazione assomiglia alla gestione della crisi pandemica: ogni giorno nascono regole e invenzioni nuove, in un continuo aggiustamento alla realtà.

Come reputa dunque la gestione europea dell’immigrazione? L’impressione è che ogni nazione pensi fondamentalmente a sé stessa cercando soprattutto di spostare le masse di persone altrove.
In questo momento sta succedendo qualcosa di importante, di grande, si sta compiendo la Storia. Ogni nazione sta facendo qualcosa di giusto o di sbagliato, ma tutto ciò non ha alcuna importanza, poiché la Storia sta comunque facendo il proprio lavoro cambiando ogni cosa. I governi decidono in una prospettiva di venti o trent’anni, mentre la Storia sta facendo qualcosa che durerà per sempre.

È un po’ come il cambiamento climatico: è inarrestabile. Così come non si possono fermare la pioggia o i tornadi, non si può fermare la gente. Stanno arrivando centinaia di migliaia di Kader Abdolah!

Cosa succederà secondo lei?
Ora non siamo in grado di capire quello che succederà, lo saprà chi vivrà fra un centinaio d’anni. Quanto intraprendono i governi non avrà la minima influenza sullo svolgersi dei fatti, perché si tratta della natura delle cose. Credo che le prime due o tre generazioni di migranti avranno dei problemi, ma dopo la quarta non ce ne saranno più, perché quelle persone non saranno più migranti, ma italiani, olandesi o francesi. A questo proposito vorrei fare un bell’esempio: quando sono venuto qui ho portato mia figlia, che aveva quattro anni. All’epoca per alcuni rappresentavamo un pericolo, ma oggi mia figlia ha un ottimo diploma universitario ed è sposata con un olandese, insieme hanno tre meravigliosi bambini che non sono in alcun modo persiani o immigrati, ma cittadini olandesi. 

Dobbiamo sempre ricordare che se partire non fosse stato necessario, non sarebbe mai successo. Si guarda sempre alle cose da una prospettiva europea, ma bisogna considerare che chi emigra non vorrebbe partire, ma è costretto a farlo. Nemmeno io volevo lasciare il mio Paese, ma poi all’improvviso ho cominciato a non poter più dormire di notte, e qualcuno o qualcosa mi bisbigliava all’orecchio «vai, vai». È il tempo che sussurra all’orecchio di chi parte.

Se la partenza non rappresenta una scelta, ma una necessità, essa presuppone anche un grande dolore. Come si gestisce la sensazione di perdita e di lontananza?
Il dolore non è solo mio, ma anche della mia famiglia, che è rimasta laggiù, e di tutti coloro che non mi volevano perdere. Io ero oro per mia madre, ero il futuro e il suo supporto, la luce della famiglia. Sono trent’anni che siedo a questa scrivania, davanti al mio computer, e racconto il dolore. Ho bisogno di scrivere, perché anch’io ho bisogno di provare un pizzico di felicità, e perché così facendo dimostro a mia madre di non avere fatto le cose invano, che alla fine la mia fuga è servita a qualcosa.

E coloro che non possono scrivere, che non posseggono il suo talento, come gestiscono il dolore?

Credo che il loro dolore sia milioni di volte più grande del mio. La prima generazione degli immigrati si porta appresso un dolore immenso, e può fare una sola cosa: regalare i propri figli alla nazione che li accoglie. Io cerco di fare la stessa cosa attraverso i miei libri.

I libri sono come dei figli?
C’è chi cerca di dare alla società in cui va a vivere dei figli sotto forma di film, di libri o di arte. Come immigrato devi dapprima dimostrare che hai lasciato il tuo Paese per necessità. Dopo, si possono trovare vie diverse, si può fare arte, oppure si possono fare dei figli importanti e belli.

I suoi libri sono pubblicati in Iran?
No, ciò non è possibile. Due o tre dei miei libri sono stati tradotti in persiano, ma all’estero.

Come vede l’Iran dal suo osservatorio per certi versi privilegiato?
Come ho già detto, la Storia sta facendo il suo lavoro. Quella che abbiamo ora in Iran è la miglior via possibile. In passato abbiamo desiderato qualcosa di diverso, ma ci siamo rovinati. Questo regime proviene dall’interno del Paese, dunque non lo possiamo fermare. Esso ci appartiene, è composto dai nostri figli; anche se si tratta di figli cattivi, sono comunque nostri, e non esiste un’altra via. Dobbiamo essere pazienti o lottare contro questa situazione, dobbiamo dare il nostro meglio, ma non possiamo fermare il regime. Per un cambiamento ci vorranno forse altri cento anni, durante i quali dovremo però convivere con il regime.

Le nuove generazioni non riusciranno a cambiare lo stato delle cose?
Non possiamo cambiare le cose attraverso la rivoluzione o con l’uso della forza. Si tratta di un processo che necessita di tempo, poiché è molto lento.

Si legge sempre più spesso delle nuove generazioni di iraniane e iraniani che vorrebbero vivere all’occidentale.
Sì, ma si tratta solo di una piccola parte della popolazione. La maggior parte degli iraniani vive nei villaggi, impegnata a trovare il pane da portare in tavola. I giovani che vorrebbero vivere all’occidentale rappresentano una minoranza assoluta. Ci vorrà tempo. Gli iraniani sono molto nazionalisti, e poiché ogni iraniano ha paura di perdere la propria nazione, tende a tenere unito il proprio Paese. Proprio per questo ogni iraniano in segreto crede che il regime degli ayatollah in questo periodo storico sia un modo per tenere unito il Paese. Come scrittore ho il diritto, anzi, direi il dovere di dire queste cose, ma l’iraniano medio non può.

Un libro come La casa nella moschea ricorda Le mille e una notte, poiché racchiude in sé uno spirito antico, ma allo stesso tempo riesce a raccontare la storia recente dell’Iran. Le è così riuscita la creazione di un arco tra la storia di una famiglia e la storia di un Paese. Dove nasce la sua ispirazione, così vivace eppure sempre poggiante su solide basi storiche?
Questa è una domanda accademica: scrittori si nasce! La scrittura è un dono. Ora ad esempio ho cominciato a scrivere un libro su mia figlia, e all’improvviso sono apparsi dei nuovi personaggi che non avevo mai visto. Lo scrittore non sono io, poiché sono i personaggi stessi a spingere lo scrittore a scrivere le loro storie. Questo è il mio segreto, che prima non conoscevo.

Da un bravo scrittore ci si dovrebbe aspettare amore per il genere umano?
Vedo ogni donna e ogni uomo come un miracolo, come un libro profondo e sconosciuto: voglio dunque parlare e sognare con loro. Ogni persona è un segreto, intorno a noi ci sono così tanti segreti. Lo scià Nadir scrisse circa 500 pagine sul suo viaggio attraverso l’Europa, ma senza dedicare una sola frase ai personaggi femminili, ma mentre scrivevo quel libro, all’improvviso sono arrivate le donne… È dovere dello scrittore essere onesto e curioso, cercare e trovare.

Attualmente su cosa sta lavorando?
Fra un romanzo e l’altro ho scritto, o meglio, riscritto Le mille e una notte. È un testo pesante, con molto nonsense, quindi ho cercato di ripulirlo, questo mi ha permesso di scoprire cose nuove e nuovi aspetti dei personaggi, anche da un punto di vista storico.

Lei è un buon lettore?
Non sono un grande lettore, perché ho due problemi: da una parte mi piacciono i libri cattivi, e dall’altra provo una profonda invidia quando leggo libri molto belli. Mi arrabbio e divento invidioso, quindi chiudo il libro e lo metto via, ma allo stesso tempo lo bacio e ringrazio chi l’ha scritto.

Chi considera Maestro nel mondo della letteratura?
Io mi inchino davanti ogni libro, davanti a ogni scrittore, perché è un lavoro duro. Sono affascinato dalla Bibbia, dalla Torah e dal Corano. Amo la potenza dell’immaginazione e delle frasi.