Si ha la certezza di pronunciare ormai un’ovvietà dicendo che il tema dell’attuale sociolinguistica italiana è oggi quello del linguaggio inclusivo, specie nel suo «perimetro» del linguaggio rispettoso del genere. Il panorama è fitto e non è difficile trovare nei cataloghi di questi mesi un’abbondanza di nomi e titoli; tra i nomi, brillano quelli di Vera Gheno, Fabiana Fusco, Andrea De Benedetti, Massimo Arcangeli, Cecilia Robustelli, Barbara Carnevali e molti altri. Per i titoli risalta una certa tendenza alla baruffa, soprattutto tra i favorevoli allo schwa (il simbolo che si vorrebbe promuovere in luogo della morfologia maschile neutra e sovraestesa) e i contrari, tra i sì-schwa e i no-schwa. In questo senso titoli sonori come La lingua scema: Contro lo schwa (e altri animali) di Massimo Arcangeli o Così non schwa. Limiti ed eccessi del linguaggio inclusivo di Andrea De Benedetti non possono certo essere considerati dei tentativi di conciliazione. È proprio questo sobbollire del dibattito a invitare a mettere un po’ di ordine; anche se, come visto, pacatezza e precisione parrebbero non stare molto di casa da queste parti della disciplina, dove albergano piuttosto le polemiche, l’aggressività e, qua e là, l’odio (in Rete soprattutto).
Prima cosa è stabilire l’elenco delle differenze; quella di genere è solo una delle possibili discriminazioni, il cui catalogo accoglie (osserva Vera Gheno) «il sesso biologico, l’identità di genere, l’orientamento sessuale, l’etnia, la religione, la disabilità, la neurodiversità, l’età, il corpo, il carattere e …i soldi». È evidente a tutti che un linguaggio inclusivo dovrebbe tendere alla non esclusione di categorie spesso profondamente diversificate. Un secondo aspetto da osservare è il rapporto tra lingua e società: è la società a determinare il maschile neutro, il linguaggio irrispettoso e tutte quelle dannose asimmetrie o è al contrario un cattivo linguaggio a rovinare la società e a renderla esclusiva? Il dibattito è vecchio tanto quanto la linguistica e non lo risolveremo in queste righe; è però ragionevole concedere che le radici dell’ancien régimelinguistico sono chiaramente extra-linguistiche. E se risulta al giorno d’oggi ancora innaturale usare parole come chirurgao direttrice d’orchestra è perché la società dei parlanti non ha storicamente ritenuto che queste fossero professioni «da donna» e non ne ha prevista un’etichetta, con tutte le conseguenze del caso.
Terzo problema: chi lo fa? Chi deve incaricarsi di promuovere il linguaggio inclusivo e con quali mezzi? Le istituzioni, i media, un’autorità linguistica, i diretti interessati? L’esperienza di questi anni è disorientante: gran parte del libro di Massimo Arcangeli (quello con il titolo «scorretto» qui sopra) è dedicato a quanto si sia pasticciato in una sede istituzionale come l’Università italiana; per quanto riguarda i media, è forse troppo esigere scelte comuni e uniformi, e d’altronde chi fa qualcosa lo fa spesso a modo suo; la ricerca linguistica, l’abbiamo visto, tende un po’ al litigio. Restano i/le diretti/e interessati/e dalla discriminazione; che però nemmeno loro sono sempre d’accordo: dice Fabiana Fusco che «spesso sono proprio le donne a non accettare la declinazione al femminile delle parole, invocando modelli linguistici maschili nella convinzione che adottarli equivalga a raggiungere uno status di maggiore considerazione sociale». Esemplare (ma se ne trovano altri) è il noto caso della direttrice d’orchestra Beatrice Venezi e della dichiarata preferenza per la forma maschile della sua stessa qualifica professionale.
Di sicuro si tratterà non tanto di cambiare la realtà sociale, che va un po’ dove vuole, quanto di agire sulle sensibilità, diffondere consapevolezze, mettere in atto una sorta di «consacrazione della collettività» che, a un certo punto e come una sorta di potere morbido, farà parlare i suoi parlanti avendo rispetto di tutto e di tutti. Solo lì le parole dell’inclusione (meno la sua grammatica) stoneranno meno e ci sembreranno un po’ più naturali.