In Nessun tempo. Hans Werner Henze. Diari, saggi e interviste (LIM, pp. 295, € 30) è un libro che trasmette l’energia vivificante di un compositore «che ha fatto con le sue “Opere e i suoi Giorni” la propria parte di uomo civile contro le violenze e i soprusi dell’uomo sull’uomo», come scrive Franco Serpa nella luminosa Prefazione al volume. La raccolta, curata da Riccardo Panfili e Clemens Wolken, offre rare analisi musicali (la Nona di Beethoven), vivide pagine diaristiche e risposte «rapide, schiette, intelligenti» a intervistatori.
Parole che tracciano il percorso solitario del giovane Henze nella musica del secondo dopoguerra: una strada dove «le vecchie forme lottano per riacquistare un significato, anche lì dove le sonorità della nuova musica non le fanno quasi più emergere (…) un mondo dove alzano la voce e vogliono diventare visibili Mercurio e Giove, Virgilio, fauni, Arlecchini, tritoni, Leonce, Amleto e Gloucester». Ideali visibili a distanza, «ostacolati dall’immensa oscurità di quest’epoca: unica follia per la quale valga la pena vivere».
Perché l’arte di Henze trae origine dalla ferita di essere nato nella provincia tedesca nazificata, sapendo cosa il suo popolo subiva e perpetrava. «Quando ero soldato i più anziani di servizio mi dissero di quei campi, di quanti russi, ebrei, omosessuali venivano uccisi… così… per il semplice fatto di essere russi, ebrei, omosessuali (dove lo avrebbe voluto mandare il padre quando sospettava “potessi essere omosessuale”). Tutta la mia vita del dopoguerra è stata segnata da queste esperienze di violenza. Ebbene, la musica è stata la mia forma di evasione».
L’atmosfera chiusa della Germania di Adeunauer, la rimozione strisciante della colpa, spinsero il compositore tedesco a migrare nell’Italia neorealista, prima a Ischia, la greca Pythaecusa, poi a Napoli e Roma, approdando infine ad un’erma lepraia sui colli laziali nei pressi di Marino. Là, fra la gioia di vivere dei discendenti dei romani e dei greci, imparato «a conoscere l’italiano, una lingua solenne e oscura, provando ad ascoltare con orecchie napoletane», si definì anche il suo atteggiamento verso la musica: «oscillante tra pezzi cantabili e contrappuntistici: temperare la natura nordico-polifonica con l’arioso del Sud potrebbe essere interpretato come un’indecisione, ma anche come un mezzo artistico per evidenziare elementi quasi teatrali: la tensione e la dissoluzione, la severità e la leggerezza, la luminosità e l’oscurità. Tutto tende verso il teatro e da lì torna indietro».
Scomunicato per la sua indipendenza dai colleghi-pontefici della Nuova Musica, quando l’arte diventò «ricerca di potere, di influenze, di rapporti, di conformismo politico e morale», Henze continuò ad ammirare la forza teatrale di Verdi, lo Stravinskij neoclassico e Alban Berg, a rileggere il suo Vangelo: Le Nozze di Figaro (fin da bambino l’ascolto alla radio di Mozart «era una promessa d’amore che mi era caduta dal cielo»), a scrivere musica «impura» (come la poesia per Neruda), «“macchiata” di debolezze, svantaggi, imperfezioni».
Soprattutto a scrivere magnifiche opere di teatro in musica che hanno corso e corrono il mondo (Boulevard Solitude, König Hirsch, Die Bassariden, fino alla miracolosa estate di San Martino con le ultime Upupa, Phaedra, Gogo no Eiko, Gisela), insieme a collaboratori e poeti come W.H. Auden & C. Kallman, Ingeborg Bachmann, H.M. Enzenberger, Y. Mishima, artisti che «mi hanno concesso uno sguardo nel loro mondo ideale e hanno arricchito il mio pensiero», perché «inventare qualcosa che non c’è già stato», è «inventare il Bello».