Nel recente La verità degli altri Giancarlo Bosetti ha scelto dieci protagonisti della storia, dall’antichità sino ai nostri giorni, in una galleria che unisce l’imperatore Ashoka Mauryia, vissuto nell’India del III sec. a.c. con Origene, martire della chiesa cattolica nel III sec. d.c., con Nicola Cusano, il grande filosofo del 1400 che dopo la presa di Costantinopoli da parte dei turchi parlò di pacificazione universale, con il filosofo Michel de Montaigne, con il teologo e gesuita contemporaneo Jacques Dupuis, con l’antropologa Margaret Mead le cui inchieste scandalizzarono la cultura sessuale vittoriana dell’America, e altri personaggi ancora. Li accomuna il fatto di essersi distanziati dai dogmi dominanti del loro tempo, pagando prezzi molto alti. Il libro tocca punti nevralgici del nostro presente.
Giancarlo Bosetti dirige «Reset-Dialogues on Civilizations», associazione internazionale dedicata al pluralismo culturale; nel 1993 ha fondato la rivista «Reset».Tra le sue pubblicazioni vi sono il libro-intervista del 1992 con Karl Popper, La lezione di questo secolo e la raccolta di interventi di Karl Popper e John Condry Cattiva maestra televisione, del 1994.
La verità degli altri tocca problematiche religiose, politiche, filosofiche e antropologiche, parla di complementarietà delle religioni, mette in luce la coerenza morale dei dieci personaggi, ci restituisce con precise riattualizzazioni del passato l’ambiente e le relazioni del contesto storico nel quale vissero e agirono. Malgrado gli argomenti spesso ardui e complessi presi in esame il risultato è una lettura sorprendentemente facile e avvincente, che potrebbe essere scambiata per una narrazione romanzata se non fosse rigorosamente storica. Abbiamo posto alcune domande all’autore.
Lei individua dieci personaggi storici che si rifiutarono di aderire a quello che chiama «monismo», ossia l’esistenza di una verità assoluta e di un unico dio. Da dove proviene il bisogno del monismo?
La scoperta del pluralismo, del fatto che non siamo soli ma sono possibili molti mondi e altre verità che esibiscono la stessa convinta assolutezza con la quale tendiamo a vivere quella in cui siamo stati cresciuti, è una fonte di incertezza umanamente comprensibile. L’uscita dal «monismo ingenuo», come lo chiamava Karl Popper, nel mondo contemporaneo ci butta addosso tante diversità, attraverso i media ma anche nella vita delle nostre città e dei nostri palazzi così multicolori, multilinguistici e multireligiosi. Come non fare i conti con questa varietà di costumi? Come non mettere in relazione le nostre certezze con quelle degli altri? Intolleranza e violenza nascono dal rifiuto di entrare in dialogo con la pluralità.
Come definirebbe il monismo?
Se vogliamo un termine più chiaro chiamiamolo «fondamentalismo». Non vale solo in campo religioso, ma anche per i portatori di assoluti «troppo» forti nella vita pubblica. Aveva ragione l’imperatore Ashoka: non bisogna esagerare nel difendere la propria fede e le proprie convinzioni. Immaginiamo sempre che a sbagliare potremmo essere noi.
I suoi personaggi hanno superato l’etnocentrismo, cioè la tendenza a considerarsi il centro del mondo.
È una tendenza umana: dove nasciamo e cresciamo è davvero il centro del nostro cosmo, quanto più la nostra cultura è semplice e primitiva tanto più il nostro cosmo diventa «il Cosmo». Poi però siamo capaci di imparare tante cose «de l’infinito universo e mondi», da Giordano Bruno a Galileo, da Charles Darwin a John Barrow e a tutta la divulgazione scientifica contemporanea. La centralità della nostra «tribù» la viviamo nella comprensibile difesa dei nostri interessi, abitudini, costumi.
Come spiega la morale diversa e contraddittoria di alcune leggi?
Le leggi cambiano non solo nello spazio ma anche nel tempo. Ci sono paesi dove gli omosessuali sono puniti a morte, e altri in cui il matrimonio gay è ammesso. In Italia il divorzio è stato ammesso solo nel 1970: «Legge di qua da una montagna e di un fiume, crimine dall’altra parte», dicevano Montaigne e Pascal. Un tempo si bruciavano gli eretici e le streghe, scrive Montaigne: «È un tenere in ben alta considerazione le proprie congetture il volere arrostire sulla loro base degli esseri umani». «Congetture» è la parola importante, non la indiscutibile verità di chi ha pronta la torcia per appiccare il fuoco.
Il mondo globalizzato ci costringe al confronto e allo scontro tra verità opposte; il concetto di nazione ad esempio è un prodotto della modernità o ha radici antiche?
Il nazionalismo fiorisce nell’800, sulla sua base si formano e consolidano stati come Italia, Grecia e Germania. L’ideologia aveva spesso tratti liberali e rivoluzionari contro ordinamenti dell’«ancien régime», con un’impronta più conservatrice o moderata; come si è visto può però assumere forme anche più pericolose. Il nazionalismo di Atatürk ad esempio si è lungamente scontrato con l’incapacità di ammettere che nel territorio turco vivono anche curdi e aleviti. Ciò è stato ed è un fattore di instabilità della Turchia contemporanea.
Su cosa si fonda l’idea di nazione oggi?
Sulla separazione tra etnia e cittadinanza. Noi concepiamo la cittadinanza come appartenenza a uno stato, senza pregiudizi e discriminazioni di razza e religione, vogliamo che tutti imparino la lingua o le lingue necessarie per la partecipazione consapevole alla vita pubblica.
Lei scrive che la nostra conoscenza è parziale: quali campi del sapere scientifico o umanistico potrebbero portarci a comprendere il fanatismo e l’intolleranza prodotti dalla non accettazione della verità altrui? Discipline come la sociologia o la psicoanalisi potrebbero aiutarci a sviluppare un pensiero politico, come fa ad esempio l’arte?
Tutti i mezzi che lei cita possono essere utili allo scopo. L’educazione e la conoscenza ci aiutano a vedere il giusto senso della misura, la parzialità del nostro sguardo, la provincialità, «municipalità» (diceva Montaigne) del nostro sapere. Noi giudichiamo sempre «secondo ignoranza» nel senso che ogni nostro giudizio include una dose di sapere e una dose di non sapere. Imparare le dimensioni inevitabili della nostra ignoranza è segno di maturazione ed è forse il passo più difficile, si tratta di riconoscere la nostra fallibilità. Che bello quando qualcuno in un’accanita discussione se ne esce con il dire: su questo punto sono piuttosto incerto.
Relativismo culturale e pluralismo sono termini che lei usa per illustrare verità diverse.
Il relativismo culturale lo abbiamo imparato da Montaigne e poi perfezionato con l’antropologia culturale di Franz Boas, Margaret Mead e Ruth Benedict; è un metodo di lavoro per cui l’antropologo che ad es. studia le tribù delle Isole Sentinel nell’arcipelago delle Andamane, non può certo spiegare loro come si tiene la forchetta o il corretto abbigliamento della domenica.
Il pluralismo culturale invece guarda alla varietà delle culture in un modo che assomiglia a quello dell’antropologia, è l’ideologia che ha ispirato il concetto americano di cittadinanza, quello che prevede il trattino come in «afro-americani», capace di valorizzare e considerare liberamente quanto ciascun americano desidera. Vi è un tratto comune nell’essere americani, che però rispetta la storia e le differenze di ciascuno.
Ma questo non porta all’accettazione di qualsiasi cosa?
Non dobbiamo confondere tutto questo con il relativismo morale, con chi sostiene che tutto è ammesso perché giustificato da una certa cultura. Anche valori umani generalmente considerati buoni come libertà, giustizia, virtù cristiane, senso dell’onore, amore per i figli e così via, vanno tenuti sotto osservazione: come diceva Isaiah Berlin, uno dei protagonisti del mio libro, «di nulla troppo»!