Saleem da Nazareth

A colloquio con il bravo musicista palestinese che, dopo un’infanzia trascorsa in una realtà senza musica classica, oggi suona nelle più prestigiose sale del mondo
/ 05.02.2018
di Enrico Parola

«A volte l’impossibile è più facile da realizzare che il difficile». Il copyright, almeno in ambito musicale, è di Daniel Barenboim, che con la sua Divan Orchestra da quasi vent’anni realizza qualcosa che sembrerebbe – e guardando al panorama socio-politico dovrebbe essere – impossibile: far suonare fianco a fianco musicisti israeliani e palestinesi, cristiani, ebrei e musulmani. Perché, è la ferma convinzione del grande pianista argentino, «davanti a Mozart e Beethoven siamo tutti uguali perché il cuore di ognuno di noi batte allo stesso modo».

Saleem Abboud Ashkar ha seguito l’esempio di Barenboim, ma ciò che è riuscito a realizzare non è solo frutto di passione e intuizione, è anche l’esito di una storia a suo modo straordinaria. Ashkar è un pianista classico: a 17 anni suonava con Zubin Mehta e la Israel Philharmonic, a 22 con Daniel Barenboim alla Carnegie Hall di New York, nel 2004, «ormai» ventottenne, con Riccardo Muti alla Scala nel concerto per due pianoforti di Mozart; l’altro solista era un israeliano, Itamar Golam. «Sono nato a Nazareth (nel 1976, ndr) in una famiglia araba: ritrovarmi solista con un israeliano fu un momento straordinario, lì ebbi la conferma che il dialogo tra noi è possibile», racconta, «per questo qualche anno dopo ho creato nella mia città natale una scuola di musica dove potessero studiare assieme ragazzi di tutte le provenienze: arabi e israeliani, musulmani ed ebrei.

Attualmente sono quasi 25mila gli studenti passati nelle aule di questa scuola». Un’opera che gli ha meritato vari riconoscimenti internazionali, tra cui, nel 2012, lo Yoko Ono Lennon Courage Award. D’altronde Ahskar aveva provato che cosa significasse essere l’unico arabo in una scuola frequentata quasi interamente da ebrei, «dove il quasi non vuol dire in piccola percentuale, ma che oltre a me c’era un solo altro ragazzo arabo, Sayed Kashua, che oggi è uno scrittore affermato (ha avuto una certa fortuna in traduzione italiana il suo Arabi Danzanti, ndr.) e che allora seguiva i corsi di danza».

All’epoca Saleem aveva 14 anni: «L’anno prima i miei genitori mi avevano mandato a studiare a Londra perché a Nazareth non c’era nulla: da noi la musica classica non è semplicemente snobbata, è totalmente sconosciuta. Ad esempio noi, credo per puro caso, avevamo un pianoforte in salotto ma nessuno l’aveva mai aperto, così lo consideravo solo un mobile strano e minaccioso, per via del suo colore nero. Ma ero troppo piccolo per un balzo così, Londra rispetto a Nazareth non è solo immensamente più grande, è tutto un altro mondo da ogni punto di vista; stavo malissimo e quindi i miei genitori mi mandarono a Tel Aviv». Quasi a prevenire la domanda che sorge spontanea mentre ripercorre le prime tappe della sua biografia musicale, Ashkar indietreggia fino al momento in cui tutto iniziò: «Come le dicevo, io non avevo la benché minima idea di chi fossero Beethoven o Bach, di che cosa fosse un’orchestra o un violino. Però quando avevo sei anni – era il 1982 e Israele aveva riaperto le frontiere col Libano – arrivò un cugino libanese di mio nonno che aveva studiato musica in Germania. Vedendo il pianoforte che languiva da tempi immemori in salotto non si trattenne, lo aprì e iniziò a suonare. Per me fu una folgorazione: quello che era stato fino a quel momento un mobile lugubre si rivelava una fonte di bellezza, di gioia, di vita. Fu lì che decisi prima di conoscere la musica e poi di farne la mia professione».

Sulla rapidità con cui passò da tredicenne nazareno spaventato e spaesato nella City britannica e da quattordicenne palestinese isolato in una scuola tutta di israeliani a solista con i più grandi direttori, Ashkar glissa con umiltà per nulla affettata: «Non mi considero un enfant prodige e non mi attribuisco neppure un talento particolare; sono uno che ha studiato tanto e ha camminato su questa strada attingendo tutta la forza d’animo e tutta la volontà che aveva. Certo, essere riuscito ad arrivare alla ribalta maggiore partendo da una situazione come la mia è stato tutt’altro che facile, anzi direi un mezzo miracolo».

Miracoli che Ashkar non attende dalla politica: «Non mi faccio illusioni, la situazione oggi è intricata e problematica come lo era anni fa, qualcosa cambia in meglio e qualcosa in peggio. Però credo nel dialogo, nell’azione che può venire dal singolo, nell’esempio che contagia chi ti sta vicino. Non c’è solo la scuola di musica a Nazareth, ormai una realtà di vaste dimensioni; a Berlino, dove vivo con mia moglie e le mie due figlie, ho creato assieme ad alcuni amici la fondazione Alfarabi, dedicandola a un filosofo e musicista andaluso dell’undicesimo secolo. Non abbiamo l’obiettivo di cambiare il mondo convincendo i potenti della terra, ma vogliamo dialogare e insegnare qualcosa magari a venti berlinesi, poi magari a 50, 100 bambini e così via».

Idee e desideri che danno una forma particolare anche al suo essere musicista di caratura internazionale, con l’agenda congestionata di impegni anche discografici (per la Decca ha inciso i Concerti di Mendelssohn con Chailly e la Gewandhaus di Lipsia e sta registrando le 32 Sonate di Beethoven): «Suono, passo da un hotel all’altro e da una sala da concerti a un teatro, ma non voglio essere un artista isolato nella sua torre d’avorio, tetragono a quanto accade attorno a lui. Prima di suonare non mi chiudo in camera a riposare e concentrarmi, amo girare per le vie della città in cui mi trovo per vedere la gente e cercare di capirla nella sua quotidianità. Perché se si guarda alla politica e ai potenti sembra che il mondo sia dominato da indifferenza ed egoismo, ma tra la gente c’è tanto altro: certo, disorientamento e dubbio, ma anche coraggio, voglia di fare e di cambiare».