Due tigri si contendono il titolo di superstar a quattro zampe della pittura giapponese: la piccola e dinoccolata Vecchia tigre nella neve di Hokusai e quella quasi altrettanto celebre dovuta al pennello di Nagasawa Rosetsu che con un balzo felino sembra uscire dalla parete per andare incontro al visitatore. Quest’ultima è al centro della eccezionale mostra attualmente aperta nella ariosa sala sotterranea del Museo Rietberg di Zurigo, dove è stato ricostituito lo spazio architettonico del tempio Muryoji vicino a Kyoto dal quale proviene unitamente ad altri capolavori del maestro vissuto tra il 1754 e il 1799. L’aggettivo eccezionale è usato a proposito: per la prima volta da più di duecento anni infatti le 48 pitture di grandi dimensioni che decoravano in origine le pareti e i pannelli scorrevoli che davano accesso ai locali interni del tempio (oggi sostituite con copie, mentre gli originali erano conservati in un annesso museo) hanno lasciato il Giappone.
«Il museo del tempio Muryoji – mi racconta Elena DelCarlo, responsabile della comunicazione del Rietberg – è in fase di ristrutturazione e così i curatori Khanh Trinh, conservatrice delle nostre collezioni d’arte giapponese e coreana, insieme a Matthew McKelway della Columbia University, sono riusciti ad ottenere in via del tutto eccezionale dall’Agenzia per gli Affari culturali del governo giapponese, il permesso di portare questi tesori a Zurigo; per sole otto settimane poiché le opere, considerate “tesori nazionali”, non possono essere esposte al pubblico per più di sessanta giorni vista la loro fragilità». Dopo di che non sarà più possibile vederli se non saltuariamente a Kyoto ma comunque non in un allestimento a tre dimensioni come a Zurigo e non insieme ai capolavori prestati da altri templi zen, musei famosi come il Metropolitan di New York, musei tedeschi, collezionisti privati o già di proprietà del Rietberg; per un totale di oltre sessanta opere.
Non ci sono infatti solo la monumentale tigre e il dragone che gli fa da pendant – sembra dipinti in una sola notte del 1786, in un impeto creativo simile a quello del Cellini quando fuse nel bronzo il suo Perseo – ma tutte le pitture spesso a sfondo simbolico che costituivano la decorazione del tempio, tracciate su ampie superfici che accoglievano i visitatori e li invitavano alla riflessione; oppure dipinte sui classici rotoli. Inoltre composizioni a inchiostro o a colori di grandi e piccole dimensioni (compresa una miniatura di poco più di 3 centimetri di lato con cinquecento profili di arath buddhisti) tracciate col pennello ma anche usando le dita, su fondi dorati o su carta bagnata dove il vuoto, che l’artista utilizza sapientemente per avvolgere i personaggi ritratti, le figure di animali o gli straordinari paesaggi naturali, gioca un ruolo fondamentale e ci colpisce per la sua modernità.
Un artista estroso quanto completo, eccentrico e innovatore malgrado sia morto in giovane età, che partito dalla pittura tradizionale del maestro Maruyama Okyo legata al mondo del Buddhismo Zen, ha poi percorso con furia, leggerezza, humor e molta poesia, strade originali che lo hanno portato a essere uno degli artisti più richiesti da parte del clero buddhista e dei ricchi mercanti del Giappone del ’700. Un ricco catalogo come pure una serie di occasioni culturali e ricreative accompagnano la mostra che chiude il 4 novembre.