Roma l’eterna e la sua luce

Una nuova raccolta di racconti della brava scrittrice Nadia Terranova
/ 18.05.2020
di Laura Marzi

Nelle ultime settimane sono circolate molte immagini di Roma sgombra: la città di solito presa d’assalto dai turisti e congestionata dalle auto dei suoi abitanti si è presentata davanti agli obbiettivi dei fotografi vuota e meravigliosa, imponente anche nella sua assoluta solitudine.

Nella raccolta di racconti che Nadia Terranova ha deciso di dedicare alla capitale, dove vive, incontriamo invece la città di sempre: popolata, così diversa nella varietà dei suoi quartieri, indifferente e atavica, troppo bella forse per degnare chiunque la viva o solo la guardi di un qualsiasi moto di comprensione. Ciò che la rende peculiare in questo testo è lo sguardo di chi scrive: tutte le narratrici sono donne.

Inutile negare che come sta capitando spesso, a colpire nella lettura prima di tutto sono le immagini di bar aperti, ristoranti, di un negozio di parrucchiera, come quello che gestisce Veronica la protagonista del racconto Freezing. Queste, però, sono solo le conseguenze estranianti della situazione di isolamento in cui ci troviamo. Poi, subito la città diventa riconoscibile: attraverso le storie delle diverse protagoniste la capitale filtra e lo fa a modo suo: «la luce di Roma è una stronza: è colpa sua per ogni cosa che mi è successa» o ancora: «la luce forsennata di Roma, quella che piace ai fotografi e ai registi, invocata dai metereopatici, benedetta dai non romani, la luce che se ne frega delle stagioni». Chiunque abbia avuto la possibilità anche solo di visitare Roma sa che la sua luce giallo crema è ineguagliabile, chi ci vive arriva addirittura a credere che come un incanto quella luce ogni giorno fa scordare le scomodità, le lentezze, le assurdità che popolano la capitale.

In questi racconti di Terranova la luce di Roma illumina, per tutte le protagoniste, una ricerca della felicità impossibile: «la felicità esiste e mi ha schivata di proposito», un senso di solitudine invincibile che si deduce dalla struttura stessa di tutti i testi che compongono la raccolta. Che si tratti di narrazioni in prima o in terza persona ci troviamo di fronte a donne sole: quasi del tutto assenti i dialoghi, tranne quelli immaginati che comunque sono pochi. Impossibile la relazione umana intesa come condivisione: in La felicità sconosciuta Paola è sposata, ma non solo il suo matrimonio è finito anche se i due non se lo sono ancora detto, ma il personaggio del marito è del tutto ininfluente. Importante sottolineare che non si tratta di un atto di trascuratezza da parte di Terranova, ma della messa in scena della verità della sua protagonista. Paola vive una vita di assoluta alienazione: nessuno esiste davvero, se non la Sconosciuta, vale a dire una ragazza di cui spia ossessivamente il profilo su facebook, senza averla mai vista di persona.

In Il primo giorno di scuola la protagonista nonché voce narrante racconta della sua scelta di andare a imparare l’ebraico: «in un settembre particolarmente triste mi ero messa in testa di studiare due cose: l’ebraico e le persone felici». Ritroviamo di nuovo quell’attitudine di estraniamento rispetto al mondo circostante, di lontananza e quindi di sofferenza profonda.

A fare eccezione, almeno per quanto riguarda la nota della solitudine, il racconto Due sorelle che dice bene di quel legame unico e che può essere amorosissimo fra due sorelle che insieme cercano di sfuggire almeno per qualche ora all’atmosfera di casa. E anche Via della Devozione che potremmo quasi definire un racconto corale al cui centro ci sono Teresa e Raffaele, una coppia di anziani che più che isolarsi volontariamente, sono stati allontanati dal mondo e dalla vecchiaia infame, ma hanno mantenuto intatta una capacità silenziosa di amare.

La raccolta si conclude appunto con una dichiarazione d’amore alla città di Roma o R. come la chiama la mittente di Lettera a R. e proprio in quest’ultimo brano ritroviamo condensate le ragioni che sembrano avere animato tutto il testo: un canto di dolore e insieme quella consolazione indifferente che R. dà, resistendo caotica e immobile, ai colpi di sventura.