«Quando mi hanno proposto questo progetto mi è subito piaciuta l’idea che il brano contemporaneo non fosse un cammeo prima di un brano noto, di repertorio, ma fosse parte integrante di un programma unitario e intimamente intrecciato».
Un programma che proprio per questa sua origine si propone come originale e di indubbio interesse: Markus Poschner dirigerà l’Orchestra della Svizzera Italiana nel Manfred di Ciajkovskij, tappa del percorso che la formazione ticinese sta compiendo nell’universo sinfonico del musicista russo, e in locandina vi figura accanto la prima assoluta di Rodolfo, commissionata appositamente a Oscar Bianchi, quarantasettenne compositore italo-svizzero assai richiesto a livello internazionale e che sette anni fa aveva già dedicato all’Osi Exordium. «Questa volta osiamo qualcosa di diverso e più originale: la mia opera non costituisce una pagina a sé stante, da eseguirsi integralmente prima o dopo Ciajkovskij, ma vi si intercala: Rodolfo è una sorta di suite le cui parti, oltre ad aprire e chiudere la sinfonia, si inseriscono tra i suoi quattro movimenti». Una scelta ardita, che potrebbe risultare invisa ai puristi: «Infatti. Quando ne parlai con un editore commentò: “Attento, sei stato invitato al festival di Sochi, hai attirato le attenzioni del Mariinskij Teatr di San Pietroburgo e di altre istituzioni, guarda che se osi toccare Ciajkovskij non ti faranno più suonare in Russia”. Purtroppo ci ha pensato la guerra a troncare i miei legami musicali con la Russia; quando è scoppiata mi trovavo appunto a Sochi e dovetti abbandonare rapidamente il festival; fu un viaggio fortunoso e complicato, passai in treno dalla Finlandia. Inutile dire che il dolore è grande: certo la guerra è qualcosa di enorme, ma penso sia un errore cancellare i ponti culturali che uniscono culture e mondi; in questo, per fortuna, mi sembra che in Europa non si sia giunti agli accessi che si sono potuti vedere ad esempio in America».
«Potessi trascorrere il fantomatico pomeriggio con un gigante dei secoli scorsi, sceglierei Debussy, un genio dei colori sonori e della creatività»
Bianchi non solo ha «ripreso temi e certe soluzioni d’orchestrazione di Ciajkovskij», ma ha anche «aggiunto all’originale un soprano e un coro di voci bianche che intonano un testo in italiano. Non è una sovrapposizione, ho cercato di entrare nelle fibre della partitura ciajkovskiana: ad esempio l’archivista mi ha fatto notare che avevo dimenticato di segnare la parte dell’harmonium cui è assegnato il sostegno armonico, ma proprio in quel punto, senza volerlo, avevo creato la stessa armonia con le voci!».
Se l’operazione «Manfred – Rodolfo» è stata coraggiosa, non da meno è stata la scelta di dedicarsi alla composizione da parte di Bianchi. «Farlo oggi può sembrare una follia e forse in parte lo è; per questo sostengo che più che una scelta sia una necessità: uno fa il compositore perché sente di doverlo fare, vi si sente spinto da un impulso, un’esigenza irrinunciabile. Io, da teenager, strimpellavo il pianoforte, ma senza studiarlo troppo seriamente, però mi divertivo già a comporre; a sedici anni avevo scritto un musical che ebbe un certo apprezzamento e allora nacque in me il desiderio di conoscere gli strumenti e le tecniche a disposizione di un compositore. Mi iscrissi in Conservatorio, a Milano, immergendomi nell’amata musica classica e scoprendo i linguaggi e le estetiche della musica contemporanea».
Proprio i linguaggi e le estetiche sviluppatesi nella seconda metà del Novecento costituivano un ulteriore deterrente, un possibile ostacolo: spesso e a lungo, negli ultimi decenni, i compositori sono stati accusati di essersi ritirati nella loro «torre d’avorio» creando opere cervellotiche, incomprensibili per i non «addetti ai lavori» e, francamente, brutte. Un riferimento assoluto come Lachenman è arrivato addirittura a invitare i colleghi e sé stesso a «smettere di scrivere opere punitive per le orecchie del pubblico». «Si tratta di una fase che forse è stata necessaria; dopo gli orrori delle due guerre mondiali ci si chiedeva se fosse ancora possibile fare poesia, e allo stesso modo la musica volle rompere con un certo passato, con un certo mondo e le sue espressioni culturali.
Oggi, ma è un percorso che si sta delineando ormai da vari anni, questa necessità di rottura non è più percepita, e quindi la musica contemporanea si sta riavvicinando al pubblico, sta ritrovando il senso del comunicare e dell’emozionare». Compositori come Sciarrino, che è stato anche maestro di Bianchi, o Lachenman, non sono stati abiurati: «Alcune loro scoperte, ad esempio sulle sonorità ottenibili da certi strumenti o da un determinato uso dell’orchestra, sono interessantissime; l’importante è non riprenderle come mera, sterile citazione, bensì integrarle organicamente nella propria personale cifra espressiva». Se potesse confrontarsi con qualche Grande del passato, Bianchi non avrebbe dubbi: «Potessi trascorrere il fantomatico pomeriggio con un gigante dei secoli scorsi sceglierei Debussy, un genio dei colori sonori e della creatività, e Mozart: secondo me era davvero un pazzo scatenato».