Giovanni, il personaggio principale dell’ultimo romanzo di Claudio Piersanti Quel maledetto Vronskij è un uomo di mezza età dell’universale classe media «lungo e magrissimo», un conservatore rassicurato dalle quotidiane abitudini borghesi e imprigionato dalla sua gentilezza, che «lo avvolgeva come una camicia di forza». Tutti i giorni sale sul tram 14, raggiunge il posto di lavoro nella stamperia di proprietà in un quartiere di una Milano grigia e anonima, un ripiego dopo il licenziamento, quando era «vicecapo del più grande tipografo d’Italia» in un’azienda editoriale, dove adesso stampa tesi di laurea, dépliant pubblicitari, persino manifesti funebri.
La routine, d’altronde, ciò che è umanamente uguale per tutti nella ripetizione, è la cifra esistenziale che la prosa ipnotica ed elegante di questo scrittore scopre con una lingua sorvegliata in una narrazione che cresce di frase in frase più che nei meccanismi della trama, entrando nelle segrete della vita, nel battito quotidiano dell’esistenza, dove si nascondono una fragile bellezza insieme a un’umanissima purezza.
La voce di Piersanti, quella di Luisa e il silenzio (Premio Viareggio 1997) e dei racconti esistenzialistici de L’amore degli adulti, la più bella raccolta italiana di short stories degli ultimi trent’anni, che qui trova una misura sorprendente, di rara perfezione formale, pendolareggia tra mite disillusione e disperata gioia di vivere, e ben aderisce ai movimenti dei personaggi in uno spazio esistenziale iperrealistico, da natura morta; questo impasto riuscito dai toni bassi di un dettato senza eccessi, scarnificato per maggiori risultati espressivi e solo a tratti epifanico, è la materia viva, lo stile «semplice» di uno dei nostri migliori scrittori e della sua letteratura.
Dopo 26 anni di matrimonio con Giulia, da cui è nata una figlia che vive in Germania, «una bellissima donna», così la vede Giovanni nella sua devozione amorosa, al contrario di lui colta e forte lettrice, segretaria in una grande azienda – uscita da una recente malattia, che non è nominata ma di cui si intuisce la gravità – che ancora desidera come all’inizio, la loro felicità coniugale è fatta di piccole cose, svegliarsi insieme all’alba, fare una passeggiata, curare insieme le piante in giardino, fare l’amore. Ma all’improvviso lei sparisce, fa le valigie e se ne va lasciando un laconico messaggio perturbante: «Perdonami, sono tanto stanca. Non mi cercare».
La sparizione, la perdita di lei nello spazio esistenziale, produce in lui uno spaesamento: «Soltanto pochi mesi prima aveva il terrore di perderla per la malattia e all’improvviso l’avevo persa mentre sembrava guarita» riflette sulla sua paradossale condizione. Condivide i suoi giorni con le sue rare conoscenze, sua cugina Bruna, il marito Aldo, Gino l’amico del cuore, quello che lo chiama «il ragioniere», la notte si ferma a dormire in negozio, entra in un vortice dove l’idea di fallimento – pensa che lei se ne sia andata «per il suo deludente risultato sociale» – e gelosia, quella che «trasformava il cuore in deserto», prendono il sopravvento.
Giovanni si sente parte di una «categoria morta», un mondo del lavoro dove «quello che era moderno stava diventando modernariato», «l’epoca degli errori», dove «Un’asino con l’apostrofo aveva vinto», fatto di «morti che camminano» come gli aveva detto un sindacalista. Allora in un gesto disperato va nella libreria di sua moglie, sfila dallo scaffale Anna Karenina di Tolstoj, lui che aveva letto solo I promessi sposi e Don Chisciotte, e diffidava degli ambienti altoborghesi, lo ricompone a caratteri Bodoni mentre Vronskij, l’amante della protagonista entra nella sua vita e diventa un fantasma delle sue ossessioni.
In attesa del ritorno di Giulia, cuce il volume pregiato in copia unica, «stampato con la cura che meritava e rilegato come si doveva», e con tutta l’arte d’amare pensa che quella copia pregiata «un giorno l’avrebbe regalata a sua moglie, dicendole: “L’ho fatta solo per te”».