Per tutti coloro abbiano vissuto quello che, alla fine degli anni 90, è stato senz’altro uno dei momenti d’oro della scena musicale britannica, il nome della formazione dei The Verve resta uno dei più amati – e questo sebbene, in realtà, il gruppo sia andato incontro ad alquanto prematuro scioglimento già nel 1999, ponendo fine a diversi anni di continui bisticci (anche legali) tra i suoi membri. Da allora, nonostante una momentanea reunion (che, nel 2008, diede origine a Forth, quarto e ultimo album dei The Verve), il frontman Richard Ashcroft è riuscito a mantenersi tenacemente sulla cresta dell’onda come cantante solista, per quanto, dopo il fortunato esordio del 2000 (Alone With Everybody), non sia più riuscito a replicare gli incredibili successi conosciuti con la sua band.
Oggi, il 50enne Ashcroft può tuttavia contare su uno «zoccolo duro» di fan che lo considera come uno degli artisti più significativi della scena pop-rock degli ultimi vent’anni, e sull’ammirazione di celebri colleghi che molto devono ai The Verve sia dal punto di vista melodico che interpretativo (fra gli altri, Chris Martin dei Coldplay e gli inossidabili fratelli Gallagher); uno status che, nel 2016, gli ha permesso di ricominciare a incidere dopo una lunga pausa. Oggi, Ashcroft è di nuovo sulla breccia, e il suo nome suscita ancora grande interesse – come dimostra la controversia sollevatasi l’estate scorsa intorno alla sua decisione di abbandonare il Tramlines Festival di Sheffield dopo aver scoperto che l’ingresso sarebbe stato permesso solo ai portatori di «passaporto covid».
Ecco quindi che, come accaduto a molte star in seguito ai recenti lockdown pandemici, anche Ashcroft decide oggi di rivisitare il proprio catalogo a beneficio dei numerosi fan di vecchia data: e facendo il verso al titolo del leggendario album Urban Hymns, che nel 1997 catapultò i The Verve ai vertici di tutte le classifiche mondiali, l’ex frontman pubblica oggi questo Acoustic Hymns, il quale offre riletture rigorosamente acustiche dei migliori classici del gruppo e di suoi pezzi solisti.
Naturalmente, uno dei brani più attesi nel contesto di una rilettura minimalista è il cavallo di battaglia per eccellenza della band, ovvero il tormentone Bittersweet Symphony, che qui mantiene comunque l’iconico accompagnamento orchestrale a base di archi – e sebbene la forza melodica del brano sia sufficiente a tenerlo a galla anche in una chiave meno elaborata rispetto all’iperprodotto singolo originale, l’effetto è quello di una versione per certi versi un po’ troppo strascicata, quasi la velocità di riproduzione fosse rallentata e pervasa da una sorta di eco. In effetti, la trasposizione minimalista sembra funzionare meglio quando eseguita su altri pezzi iconici tratti da Urban Hymns: si vedano Lucky Man – la cui forza e impatto nulla perdono rispetto all’originale, mantenendone intatto l’innegabile trasporto emotivo – e la ballatona The Drugs Don’t Work, i cui toni intimisti e drammatici vengono enfatizzati e rinvigoriti dal sound minimalista, rendendo ancor più coinvolgente e significativo il messaggio delle liriche.
Ma non sono solo i classici a beneficiare di questo trattamento. Un altro eccellente risultato è rappresentato da due dei brani solisti di Ashcroft presenti in quest’album: Break The Night With Colour, qui travolgente e accattivante come nella versione elettrica del 2006, e A Song For The Lovers, primo brano inciso da Richard dopo lo scioglimento dei The Verve. Lo stesso si può dire di Velvet Morning, il cui irresistibile ritornello dai toni quasi epici (e, val la pena di ricordarlo, estremamente britpop nelle sfumature sonore) acquista nuovo, rinnovato respiro ed enfasi melodica.
In effetti, si potrebbe affermare che uno dei punti di forza di questo disco stia nel fatto che lungo tutta la tracklist, Richard mostra tatto e coerenza, donando ai suoi fan esattamente ciò che essi si aspetterebbero da lui, senza voler rischiare più di tanto: i riarrangiamenti dei brani ricalcano infatti da vicino le versioni originali, anche perché le rivistazioni proposte da Acoustic Hymns non possono considerarsi come davvero scarne o ridotte all’osso (per intenderci, del genere offerto da un set unplugged dei bei tempi andati). Il tappeto sonoro qui intessuto da Ashcroft resta però molto intricato, presentando in ogni brano il contributo cruciale di un’intera sezione di archi, oltre a sassofoni, mandolini e chitarre; tanto che This Thing Called Life può addirittura vantare un coro in stile gospel a infarcire il tutto.
E dato che il titolo completo di quest’album (Acoustic Hymns, Vol. 1) lascia chiaramente intendere come questo sia solo il primo esperimento di una serie, gli estimatori di Ashcroft possono certamente atttendersi dal loro eroe nuovi, soddisfacenti exploit acustici – volti, in fondo, ad alimentare una volta di più quello straziante «effetto nostalgia» che oggi sembra affliggere (e non solo in termini musicali) chiunque sia stato giovane negli anni 90.