Abbiamo iniziato ad affrontare settimana scorsa la questione della richiesta di alcuni governi e istituzioni culturali di restituire i tesori trafugati nei secoli dai loro paesi di origine.
Un tema che interessa l’arte (spoliazioni durante la Seconda guerra mondiale), l’archeologia e l’etnografia (con riferimento soprattutto al periodo coloniale) dai risvolti storici, etici e giuridici. Dopo averne parlato con l’archeologo Andrea Bignasca, direttore dell’Antikenmuseum di Basilea, è il turno questa volta di Grégoire Mayor, codirettore del Musée d’Ethnographie di Neuchâtel. Sempre tenendo sott’occhio l’articolo di Louis Godart, docente alle Università di Napoli e in Belgio, pubblicato dalla rivista «Archeo».
Francesi e tedeschi hanno avviato il discorso della restituzione a paesi africani e asiatici di tesori trafugati durante il periodo coloniale. E gli inglesi? Il British Museum, per bocca del suo direttore espressosi durante un recente convegno, ha categoricamente respinto la richiesta di restituzione dei marmi del Partenone, affermando che le sculture di Fidia sono Patrimonio dell’umanità, non proprietà privata della Grecia. Ha anche ricordato che Lord Elgin, trasferendoli a Londra nei primi anni dell’800, li ha salvati dal degrado e da possibili distruzioni; come già era accaduto quando i Turchi, a metà del ’600, avevano trasformato l’Acropoli in una polveriera, poi esplosa. Argomentazioni capziose.
In Svizzera, con l’occhio rivolto principalmente all’etnografia, come si affronta la tematica?
«Il problema, dice Grégoire Mayor, non è semplicemente se rendere o non rendere i reperti ai paesi di origine. Una riflessione del resto che abbiamo avviato da anni con le esposizioni temporanee al Musée d’Ethnographie. Proprio all’inizio di questo 2021 i musei svizzeri di etnografia hanno sottoscritto un programma di ricerca, finanziato dalla Confederazione, che vuole fare chiarezza sulla provenienza degli oggetti presenti nei nostri magazzini e nelle nostre vetrine». Neuchâtel, Rietberg e Università a Zurigo, Museo delle culture di Basilea, Etnografico di Ginevra, San Gallo, Schloss Burgdorf e Museo storico di Berna si mettono in gioco.
In particolare nei confronti di reperti dell’antico Regno di Benin, territorio situato oggi in Nigeria. In Svizzera ne sono stati censiti un centinaio, il 40 per cento giunti agli inizi del ’900 in seguito alla spedizione punitiva inglese del 1897 che, letteralmente, saccheggiò la capitale Benin City, rubando tesori e capolavori finiti in tutte le collezioni del mondo occidentale.
«Vogliamo ricostruire la storia dei reperti arrivati tra il 1904 e il 1960, anno dell’indipendenza della Nigeria», afferma Grégoire Mayor. Seguendo quali strade sono finiti qui? Sono in relazione con la citata spedizione militare inglese o invece frutto di traffici successivi?
Certi pezzi si sa che sono stati creati espressamente per il nostro mercato d’arte e con la partecipazione di attori africani. Sarà compito dei ricercatori indagare negli archivi dei paesi coloniali, in quelli dei paesi colonizzati, tra commercianti d’arte e collezionisti. Un compito (reso più difficile dalla pandemia) che dovrebbe dare i primi frutti il prossimo anno.
«Noi siamo naturalmente aperti alle domande di restituzione che però devono essere solo uno dei punti della discussione con i colleghi nigerani», afferma ancora il codirettore del museo di Neuchâtel. Come dice il comunicato sottoscritto dai responsabili svizzeri «è importante aprire un dibattito con la Nigeria sul futuro di questi oggetti una volta restituiti. L’analisi critica della dolorosa storia coloniale iscritta nella biografia delle opere deve diventare un’opportunità per trovare nuove forme di memoria in un dialogo stretto con gli africani. La collaborazione dovrebbe portare a conoscersi meglio, a moltiplicare i punti di vista sugli oggetti, a riflettere sul modo occidentale di presentare le culture altre dalla nostra. Un progetto funzionale all’arricchimento e alla crescita comune».
Discorso a parte quello dei reperti umani provenienti dai paesi colonizzati, presenti in molte collezioni dei nostri musei, «trasformati in oggetti da mostrare accanto a manufatti artistici, animali e altre curiosità», scrive Louis Godart nell’articolo di «Archeo» dedicato al tema delle restituzioni. Si pensi solo alle teste rimpicciolite della Papuasia. Quando in passato non venivano esposti, come fenomeni da baraccone, esseri umani viventi! Godart ricorda in particolare il caso della «Piccola Sara» (era alta 1 metro e 35 centimetri), nata schiava in Sud Africa e portata in Inghilterra nel 1810 per mostrare agli inglesi le sue insolite fattezze (era afflitta da steatopigia). Fu poi trasferita in Francia, racconta Godart, e venduta a un domatore di animali che continuò a farne un fenomeno da baraccone. Passata la moda delle esibizioni la «Piccola Sara» iniziò a bere, mantenendosi con la prostituzione. Morì a 25 anni. E la conclusione agghiacciante: «Il suo scheletro, i suoi genitali e il suo cervello sono rimasti in esposizione al Musée de l’Homme fino al 1974».
Argomenti per riflettere sulla nostra storia museale non mancano, di sicuro a direttrici e direttori, ma anche a tutti noi. (Fine)
Restituzioni delle opere: urge riflettere
Politiche museali/2 Le recenti richieste di restituzione di alcuni reperti da parte dei paesi di origine, gettano una luce incerta sul futuro di molte istituzioni
/ 22.02.2021
di Marco Horat
di Marco Horat