Remo Beretta, scrittore riservato e sublime

Nasceva cento anni fa a Leontica l’autore di I giorni e la morte, romanzo rimasto nei cassetti per decenni
/ 21.02.2022
di Pietro Montorfani

Inizio, se posso, tirando un po’ di acqua al mio mulino, o meglio a quello di una piccola istituzione culturale che festeggia proprio in questi giorni i suoi primi 70 anni di vita, e che mi sono ritrovato tra le mani senza tanti meriti nell’oramai lontano 2008: la rivista (e le edizioni) «Cenobio». Tra la fine degli anni Cinquanta e i primi Sessanta, sulla testata fondata da Pier Riccardo Frigeri e condiretta all’epoca da Piero Chiara si pubblicavano i contributi più diversi, a proposito di letteratura, cinema, filosofia, non senza qualche chicca come, nella primavera del 1962, la prima traduzione italiana di Ex Ponto di Ivo Andrić, Premio Nobel da pochi mesi. Gli scritti di autori di casa la facevano naturalmente da padrone ed è in quel contesto che nel fascicolo di maggio, in bella posizione proemiale, si offriva ai lettori il racconto Antivigilia di Pasqua, firmato da un misterioso quanto sconosciuto «Martino Della Valle». Che il soprannome non nascondesse chissà quali segreti era dichiarato in una nota in calce: «pseudonimo adottato per questo e prossimi lavori. Remo Beretta».

Nato a Leontica nel 1922, docente di formazione, Beretta aveva già pubblicato sin lì alcune traduzioni poetiche (da Eliot, Keats, Goethe,…), un fortunato saggio su Mario Luzi e molte pagine di critica d’arte, dedicate per lo più ad artisti contemporanei come Ubaldo Monico, Giovanni Genucchi, Gualtiero Genoni e Filippo Boldini. Quell’esordio nell’ambito della narrativa non sarebbe stato isolato: nel breve volgere di pochi mesi «Cenobio» ospitò ben nove prose di Martino Della Valle, di cui sette furono raccolte in volume nel 1964 dalla medesima casa editrice. Alle pagine di Beretta – così fitte di riferimenti alla realtà locale nonostante lo schermo di un periodare complesso, analitico, di non immediata comprensione – sotto il cappello «Paese mio» fecero seguito numerosi interventi di scrittori ticinesi di quella generazione, da Mario Agliati a Giovanni Bonalumi, da Giorgio Orelli a Giuseppe Curonici e molti altri. La Svizzera italiana aveva ripreso a riflettere su sé stessa attraverso lo strumento prezioso della letteratura.

Nessuno sapeva che al momento di pubblicare i suoi racconti Beretta aveva già ultimato un romanzo folgorante, significativamente intitolato I giorni e la morte, ispirato alla malattia del giovane fratello Sandro, pure lui un valido scrittore (sua la raccolta postuma Era nato in casa d’altri, Gesù, 1963, poi rinominata L’aria dal basso, Casagrande, 1983 e 2004). Fedele a un’esistenza schiva e priva di eventi maggiori, Remo Beretta continuò la sua attività di docente, al ginnasio prima e al liceo poi, fino all’età del pensionamento, non senza pubblicare qui e là altri interventi critici e nuove traduzioni (principalmente in dialetto), e tenendosi però ben stretto il dattiloscritto di questo capolavoro, la cui esistenza era nota soltanto ad alcuni amici come Gilberto Isella, Manuela Camponovo e Fabio Soldini. Soltanto sul finire della propria vita si convinse ad anticiparne alcuni capitoli in rivista, demandando alle figlie la decisione sulla sua pubblicazione integrale. A trattenerlo era stato soprattutto il timore di urtare la sensibilità di alcune delle persone cui il romanzo aveva dato magistralmente corpo e voce, con una tecnica polifonica simile a quella di un Giovanni Verga trapiantato nel Ticino di metà Novecento.

Scomparso Beretta nel 2009, I giorni e la morte uscì finalmente nel 2015 da Armando Dadò, per le cure della nipote Sofia Marazzi e con una bella introduzione di Soldini. Chi ha avuto la pazienza di leggerlo dall’inizio alla fine, con tutta l’attenzione che merita, non può che essere giunto alla mia stessa conclusione: si tratta di un carico da novanta, di quelli che appaiono raramente in un ambito circoscritto come quello della letteratura svizzera di lingua italiana. Rimasto nel cassetto per cinquant’anni, evidentemente non ha potuto agire – in termini di sedimentazione culturale e ispirazione sulla produzione successiva – come è invece accaduto ad altri piccoli capolavori quali L’anno della valanga di Giovanni Orelli, Il fondo del sacco di Plinio Martini o Albero genealogico di Piero Bianconi. Ma anche così, con questo ritardo un po’ artificioso, è inevitabile che finirà per lasciare il segno. Il tempo ne decreterà il giusto valore.