Ha uno stile secco, essenziale, che non si concede mai sterili virtuosismi e assoli Mario Calabresi, come i veri giornalisti di razza, ritmico ed efficace, che non dà tregua. Le sue storie hanno un inizio lento ma avvolgente, poi ti trascinano dentro un vortice che riconnette diversi tessuti narrativi e intreccia con sapienza frammenti di vita rimettendoli in ordine, dall’inizio alla fine, per dargli un senso esistenziale e narrativo, prima della stoccata finale che ha sempre un tocco di memorabile. Uno stile che ritroviamo anche negli episodi di Una volta sola. Storie di chi ha avuto il coraggio di scegliere, scritti durante e dopo la pandemia, in un periodo che ha reso tutto più fragile, le esistenze così come le economie, ma soprattutto ha indebolito la speranza e il desiderio di futuro, ma che in quella vita sospesa, ha anche liberato nuove energie per ripensare sé stessi e il mondo. Il suo è anche un libro di incontri, la trasmissione orale di testimonianze che si compiono grazie al racconto empatico, trasformando le parole delle conversazioni e delle confessioni quotidiane in scrittura, quella cosa che le salda e le ferma per sempre nel tempo.
Sono storie di chi non subisce la vita, non trascina pigramente, stancamente e con rassegnazione la propria biografia, vivendo al cinque percento, come diceva di sé ironicamente il poeta Eugenio Montale, ma diventando protagonista di un cambiamento, mettendo in moto una trasformazione radicale, trasformando i sogni in realtà. Scrive l’autore: «Ho cominciato a osservare e ascoltare come sta cambiando il mondo e ho cercato persone che potessero regalarmi con l’esempio una convinzione: si vive una sola volta e non si deve sprecare un solo istante. Bisogna essere fedeli a sé stessi, fare scelte coraggiose e appassionate e vivere con intensità, regalandosi ogni giorno la possibilità di scegliere. Anche quando sembra impossibile». Vivere con intensità anche quando un cancro terribile ti sta uccidendo, come succede a Rachele, una vicina di casa dell’autore, che con il suo aiuto raccoglie la sua vita in dieci vocali con i ricordi memorabili da lasciare come memoria sensibile ai propri figli.
Calabresi si prende cura di queste vite, le attraversa interiorizzandole, cerca per loro e con pietas le giuste parole, la ricostruzione del parlato, la descrizione di ambienti, fisionomie, oggetti del quotidiano, il loro senso profondo, ma soprattutto restituisce la loro cosa più preziosa, l’umanità, quel conio profondo di quelli che nell’esperienza quotidiana danno vita a metamorfosi o resistenze miracolose capaci di dare un senso nuovo, una luce nuova alla propria esistenza. I protagonisti di queste vite sono come gli «uomini non illustri» raccontati da Giuseppe Pontiggia, cioè persone comuni che non cercano i riflettori della società dello spettacolo, ma che senza nessun clamore o richiesta di attenzione, di tensione narcisistica, si sono ribellate alla malora come Claudia, la moglie del boss che ha rifiutato una vita che «a Napoli sono una via di mezzo tra il Medioevo e l’Afghanistan», che vive nascosta e nella paura ma ha scelto di nuotare in un nuovo mare dove «c’è ancora qualche squalo, ma almeno l’acqua è più limpida e le correnti sembrano meno avverse». Persone comuni come Piero Nava, venditore di porte blindate per una grande azienda piemontese, che un giorno qualunque in Sicilia mentre viaggia sulla sua Lancia Thema incontra la Storia, testimone oculare della tragica morte del giudice Rosario Livatino, ucciso dalla Stidda, la mafia dei pastori di Agrigento, un uomo che ancora oggi continua a vivere all’estero sotto falsa identità per aver visto e aver scelto di testimoniare diventando un fantasma. Uno che invece la Storia l’ha subita è Sami Modiano, ebreo che vive a Ostia. Tornato ad Auschwitz nel 2005, lì dove aveva perso tutti i componenti della sua famiglia, abbandonò l’iniziale scelta del silenzio decidendo di diventare uno degli ultimi testimoni viventi della Shoah.
Da autentico raccontatore, affascinato dalle storie, Mario Calabresi si mette in ascolto per catturare «l’impensato» di cui parla il poeta Franco Arminio, quella «danza tra mistero e cose conosciute», come l’incontro tra il bracciante albanese Limo e il novantenne Pietro su una vigna terrazzata a Monterosso, alle Cinque terre, un vecchio partigiano di ieri e un migrante di oggi, uniti da un vincolo di solidarietà nato dentro l’antifascismo.
Fedele all’insegnamento dell’amico degli anni giovani Corso Piepoli, l’avventurista morto a 32 anni a Zanzibar mentre era in sella a una moto, che amava «coltivare l’imprevisto» viaggiando in Messico, Guatemala, nell’Amazzonia di Manaus, uno pieno di vita, Mario Calabresi scrive un libro palpitante di vita, quella vita che come diceva il professore di Storia e filosofia Pietro Carmina morto nel crollo di una palazzina a Ravanusa, in provincia di Agrigento: «Non è un gratta e vinci: la vita si abbranca, si azzanna, si conquista».