«Mi dicono che sono una Boss Bitch» canta Kim Bollag in arte KimBo in uno dei brani che preferisco contenuto nel suo nuovo Ep Twerkaholic uscito per l’etichetta Clithit (Clit sta per clitoride), disponibile su tutte le piattaforme di streaming e sugli store online. «È un gioco di parole – mi dice – in cui si fondono i concetti twerk – ballare shakerando il sedere – e workaholic. Ho l’impressione che viviamo in tempi in cui c’è un’ostentazione eccessiva del nostro corpo e una sollecitazione eccessiva della nostra mente. Ci viene chiesto di lavorare sempre di più, di consumare di più online e non solo … stiamo consumando anche il pianeta. A queste preoccupazioni accosto l’idea di divertimento, il ritmo e la musicalità dell’album mettono addosso la voglia di ballare mettendo al tempo stesso in discussione l’ipercapitalismo in cui al momento ci troviamo. Nella mia musica propongo altri valori, altri atteggiamenti che magari sono poco mainstream».
Classe 1990, nata a Zurigo, cresciuta a Gordola, oggi di casa a Basilea, KimBo calca da tempo la scena svizzera del rap indipendente. Studi in Gender Studies e sociologia a Basilea, ha sempre visto nella musica uno strumento di Empowerment femminile e si è sempre impegnata per le pari opportunità. Nel 2019 insieme ad un collettivo ha scritto e cantato Mir Streiked, il brano ufficiale per lo sciopero femminista in cui si alternavano le tre lingue nazionali. Questa è sicuramente una delle cifre della rapper svizzera, cantare i testi alternando italiano e svizzero tedesco con forti contaminazioni anche dall’inglese. Proprio come in Boss Bitch di cui vogliamo sapere di più. Intanto non è da intendersi come un insulto ma come «un complimento che fai alle altre donne per dire che hanno in mano la loro vita e le loro ambizioni. In questo caso l’immagine che sta dietro alla Boss Bitch è quella di una diva che comanda e non deve dimostrare nulla perché sa quanto vale e se vuole qualcosa se la prende. Non si fa prendere dall’ansia di prestazione o dal dubbio di essere adeguata, di essere la più veloce o la più brava». Nella parte italiana il testo recita: «Posso correre ma non devo / se vuoi fallo /ma io non devo / e me ne fotto di sta gara /».
Per essere una rapper – pensando ad alcune delle voci internazionali più in voga del momento come Nicki Minaj o Cardi B – KimBo è parecchio vestita. Sulla copertina dell’album dal sapore vintage persino il viso è coperto da un paio di occhialoni e non si vede neanche l’ombelico. «Una boss bitch non ti devi svestire. Mi rifiuto di svestirmi per avere successo e mi fa piacere se posso essere d’ispirazione ma non cerco il consenso della massa o la visibilità da social a tutti i costi». Dicevamo del fatto che nei suoi testi mischia più lingue: «Rispecchia la mia identità multilingue e multiculturale». KimBo è entusiasta mentre mi racconta del suo album e delle musiche che lo abitano, «c’è il rap, il reaggaeton, l’influenza trap nel rap, quella giamaicana nel reaggaeton».
Non è solo la sua musica ad elettrizzarla ma anche il lavoro che sta dietro all’album che – guardando al suo percorso – ha un significato particolare «Nel 2020 ho debuttato con il mio album Pangolin che è stato un po’ il compendio del percorso artistico che ho fatto interamente self made sempre in giro sui vari palchi. Twerkaholic invece è il risultato di un team di produttori e per me, come artista, è stata una grande crescita professionale». Scopriamo Gira, altro brano dell’album, che racconta del disagio provocato dai social (in particolare nei giovani), della nostra costante presenza online e inizia così: «Yeah / Haha / You ready? / Hai letto nel giornale di sto rullo virtuale? / Instagram e face-, tiktok, gira mica male / Dicon fan cambiare il nostro mondo neuronale / Perché come al casinò continuamo a scrollare /». Le riflessioni sulla società, sulle questioni ambientali e femministe sono una costante nella musica di KimBo che – se da un lato fa ballare – dall’altro non è mai scontata. «Come persona mi pongo le grandi domande, rifletto sulla società che mi circonda e cerco di andare in profondità. Mi sento una femminista per il fatto che voglio infondere forza e coraggio alle altre donne, dire loro che insieme possiamo creare progetti stupendi, che siamo forti».
Per molto tempo la scena rap è stata di dominio maschile, ora c’è una nuova generazione di donne alla ribalta, qualcosa è cambiato? «In particolare negli ultimi cinque anni la scena è molto cambiata e molto evoluta. In poco tempo è successo tanto, c’è stato il movimento #MeToo, la protesta Women’s March e tante altre iniziative che a livello nazionale e globale hanno unito le donne e sensibilizzato la società. Le giovani rapper, rispetto alla mia generazione, grazie alle piattaforme digitali e ai social hanno più possibilità di farsi conoscere. Ma c’è un altro aspetto importante. Quando ho iniziato le donne rapper erano più delle Einzelkämpferinnen (combattenti solitarie) ora invece hanno capito la forza della collaborazione».
Tra queste ci sono sicuramente Garbi B e Nicki Minaj che ostentano il loro corpo puntando più sull’esagerato lato B che sulla musica, volutamente eccentriche vestono in multicolor e condiscono i loro testi con riferimenti sessuali ed espressioni volgari. Cosa ne pensi? «Non mi dispiace usare parole volgari, trovo sia una cosa molto viscerale nel mondo del rap. Il fatto che siano le donne a prendere in bocca la parola pussy (vagina) o espressioni come they own it (la possiedono), con tanta naturalezza ed energia mi piace perché la parola vulva, vagina, ecc. è stata per molto tempo tabuizzata». Insomma si legge in questo una forte emanicipazione femminile, dunque davvero un passo un avanti? «Sì. Poi magari bisognerebbe evitare di eccedere come la rapper Saweetie che in Back to the Streets mette l’uomo al guinzaglio («Metto il mio nuovo uomo al guinzaglio / Ho dato in permuta il mio ex, era solo in leasing»). Ci vedo un atto violento e spregiativo all’inverso e mi chiedo: quanto serve al progresso, alla causa?».