«L’artista libero Sergej Rachmaninov dona al libero esercito l’onorario del suo primo concerto in un paese libero»: queste parole appaiono nella lettera pubblicata nella rivista «Russkiye vedemosti» nel marzo 1917 dopo un concerto in favore dell’armata in cui il musicista aveva eseguito il suo Concerto n. 1 per pianoforte e orchestra. In verità di fronte ad avvenimenti che, con l’abdicazione dello zar Nicola II, stavano modificando profondamente i rapporti di vita, di cultura, di lavoro, Rachmaninov si trovò estraniato e privato di quei riferimenti su cui si reggeva la sua arte. L’adesione al nuovo corso politico sul quale si incamminava la Russia era di facciata, poiché contemporaneamente il musicista cercava un visto per andare all’estero. La possibilità gli fu data dopo la fase cruciale dell’ottobre di quell’anno, a Natale quando, recatosi a Stoccolma per tenervi una serie di concerti, maturò la decisione definitiva di espatriare con tutta la famiglia.
Rachmaninov appartiene a quella vasta generazione di artisti e di uomini di cultura che la Rivoluzione pose davanti a una drammatica scelta culturale, di far fronte al condizionamento dell’insieme di valori che costituivano il loro patrimonio di formazione, inconciliabile con la svolta epocale che si parava loro davanti. Per la borghesia russa la richiesta di rottura col passato risultava insopportabile. L’emigrazione diventava allora, più che un distacco, la possibilità di ritrovare il filo della tradizione. Nell’esilio americano Rachmaninov si circondò di segretari, cuochi, medici russi, fondò una casa editrice per compositori russi emigrati, agì cioè nell’intento di garantire una continuità all’azione da lui avviata alla fine del secolo precedente. Ascoltando la musica dei suoi ultimi venticinque anni trascorsi in Occidente non riscontriamo infatti nessuna frattura con l’estetica a cui si richiamava prima del 1917. La ragione – soprattutto per la fortuna che continuò ad arridergli presso il pubblico fino alla morte – non sta solo nella coerenza del suo discorso. Come ha ben detto Piero Rattalino, con lui il Kitsch familiare (tipico della musica da salotto) acquista dimensione concertistica. Con lui la piccola borghesia si appropria delle forme di comunicazione della borghesia cosmopolitica. I suoi concerti per pianoforte e orchestra si presentano come la spettacolarizzazione dell’intimità salottiera, mostrando una fedeltà alla classe d’origine che preserva la facilità del sentire, la tenerezza delle emozioni familiari.
Come mai da una realtà con profonde radici ottocentesche è potuto uscire un verbo musicale adattabile alla nostra epoca, al punto che Rachmaninov ha lasciato vistosi segni sulla musica «emblematica» delle colonne sonore hollywoodiane? La risposta sta nella società di massa, il cui pubblico rappresenta un allargamento quantitativo della piccola borghesia, quindi dei suoi modelli, per cui la realtà sociale che ha rivoluzionato le strutture della comunicazione viceversa non ha rivoluzionato il loro contenuto. La musica di Rachmaninov, con la sua elegante leziosità, poté diventare un paradiso artificiale tanto per la moglie di un banchiere della Mosca del 1900 quanto per un impiegato d’ufficio americano del 1940. Ma c’è di più: essa poté diventare anche il punto di riferimento per il proletario russo del 1930 il quale, in barba all’anatema che il regime sovietico aveva gettato sul musicista che aveva scelto l’espatrio, riuscì a far sì che quel tipo di musica fosse elevato paradossalmente a modello del cosiddetto realismo socialista.
V’è anche da considerare un altro aspetto. La prima reazione del pubblico occidentale di fronte all’esplosione della musica moderna all’inizio del secolo, se eccettuiamo le frange elitarie che prontamente diedero il proprio consenso, fu quella di cercar rifugio nell’epigonismo romantico, nell’illusione di perpetuare in pieno Ventesimo secolo l’estetica di un passato dalla quale, considerando i traguardi consolatori raggiunti da certa musica di fine Ottocento, risultava difficile dissociarsi. Non a caso l’epigonismo romantico trovò terreno fertile in America, paese che, non solo a livello propriamente musicale, visse l’esperienza romantica con decenni di ritardo rispetto all’Europa. L’abbandono della Russia da parte di Rachmaninov, stabilitosi negli Stati Uniti dopo la Rivoluzione d’ottobre, per questa ragione contiene più implicazioni estetiche che politiche.
L’epigonismo romantico, che come fenomeno di sopravvivenza di un modo d’essere dell’arte non trova raffronti in nessun’altra epoca storica, non avrebbe raggiunto la portata che effettivamente ebbe se non avesse trovato sostegno nel gigantesco apparato imprenditoriale del concertismo internazionale che nel Novecento, grazie all’apparizione della radiofonia, del disco e soprattutto assimilando le raffinate tecniche pubblicitarie e di studio del mercato, giunse a una capacità di controllo dei gusti del pubblico pressoché totale. La maggior fortuna arrideva a quei compositori che si esponevano direttamente all’applauso della scena. Rachmaninov fu indissociabile dal ruolo di virtuoso detenuto per mezzo secolo nelle sale di concerto dei due continenti. Per questa ragione, mentre la sua ragguardevole produzione sinfonica e operistica rimase nell’ombra, le sue composizioni pianistiche si guadagnarono una precisa posizione storica. Com’era generalmente la regola per tutti coloro che agirono sul terreno dell’epigonismo, le opere di Rachmaninov compendiavano tutti quei dati stilistici attraverso i quali l’Ottocento aveva innovato il linguaggio musicale, portandoli alle estreme conseguenze. Il destino degli epigoni è sempre stato quello di essere più romantici dei romantici, nel senso che nel modello essi colsero soprattutto i tratti cosiddetti caratteristici, vale a dire i momenti che a suo tempo costituirono novità ma che contemporaneamente erano in condizione di coesistere con le strutture ereditate.