Diciamolo pure da subito, la comunità LGBTIQ+ è sempre stata marginalizzata o rappresentata in modo stereotipato e grottesco da un mainstream che l’osserva dall’alto con malcelata superiorità. Basti pensare a film diventati ormai (tristemente) culto quali, per non citare che gli italiani, Il vizietto e La patata bollente per rendersi conto di quanto i personaggi queer siano per l’industria dello spettacolo un mero prodotto di consumo, un «altro» del quale prendersi gioco perché inadatto e per molti versi ridicolo.
Fortunatamente, con gli anni, la settima arte e gli immancabili mastodonti dello streaming Netflix e HBO hanno cambiato le carte in tavola proponendo al grande pubblico produzioni decisamente più inclusive e realistiche, rispettose e audaci quali le serie TV Pose e Euphoria che trattano temi sensibili quali la transidentità e il razzismo, senza dimenticare perle cinematografiche del calibro di Hedwig and the Angry Inch (Cameron Mitchell) o più recentemente Sauvage di Camille Vidal-Naquet e Un couteau dans le coeur di Yann Gonzalez.
Detto questo, molto resta ancora da fare per raggiungere una vera parità di trattamento e rappresentazione che permetterebbe finalmente ai personaggi queer di uscire allo scoperto (out of the closet), di scrollarsi di dosso il ruolo del parente scomodo dalle abitudini bizzarre. È lecito chiedersi se la comunità queer riuscirà mai ad imporre la propria identità, la propria presenza sulla scena pop. Ma soprattutto, è importante domandarsi se quest’ipotetico traguardo non rischi forse di stravolgere l’essenza sovversiva di un movimento che della «diversità» ha fatto la sua forza.
Uno degli esempi più emblematici di questo stravolgimento della cultura popolare in chiave queer è rappresentato dal reality show statunitense RuPaul’s Drag Race. Il programma, prodotto in un primo momento da Logo TV e successivamente da VHI, è stato creato dalla matrona del drag RuPaul Charles, diventata negli anni una delle personalità televisive più incisive e brillanti della stratosfera. In onda dal 2009 (e ormai alla sua quattordicesima edizione), il reality show propone una gara a colpi di tacchi a spillo e tuck per aggiudicarsi l’ambito titolo di America’s next top drag queen. RuPaul’s Drag Race non si limita però a una serie di scenette nelle quali i concorrenti mostrano i loro (innumerevoli) talenti: recitazione, danza, sartoria, trucco e soprattutto lip sync (il cantare in playback). Quello che la competizione propone è piuttosto un viaggio inaspettato e autentico all’interno della comunità LGBTIQ+, un condensato di storie personali spesso difficili, marcate da discriminazione razziale e di genere, omofobia e transfobia.
Per il grande pubblico RuPaul’s Drag Race lo è di certo, basti pensare al successo planetario delle ultime edizioni seguite sugli schermi dei bar (gay ed etero) da fan sfegatati pronti a battersi per la loro drag queen preferita. Un successo che non ha però influito sullo spirito stesso del programma, da ormai più di dieci anni portaparola della comunità queer. Grazie a Mama Ru (come amano chiamarla le sue regine) le questioni sessuali e di genere sono affrontate in prime time, ricordandoci che il mondo non è (fortunatamente) fatto solo di eteronormatività e conformismo ma anche di splendente «diversità», da intendersi non come anormalità o stranezza, ma come apertura verso la molteplicità dell’essere. La popolarità dello show, nonché la presenza di giudici devoti dal lussuoso pedigree quali Lady Gaga, Amy Sedaris, Dita von Teese, La Toya Jackson e Chaz Bono, mostrano ai media che le tematiche LGBTIQ+ hanno il diritto, anche commercialmente parlando, di impadronirsi della scena mediatica per così dire popolare.
RuPaul ci mostra quanto la comunità LGBTIQ+ sia stata e continui ad esser stigmatizzata e considerata simbolicamente come una «minoranza» quando invece una «minoranza» non lo è di certo. Quello che rende il successo dello show ancora più sorprendente è l’arte stessa sulla quale si basa: il drag, considerato come una delle espressioni artistiche queer più sovversive e underground. Nessuno si sarebbe mai aspettato di vederlo apparire sugli schermi televisivi o esportato sulle scene di importanti teatri e istituzioni artistiche, invece è proprio quello che è successo grazie alla sincerità di RuPaul e delle sue queens.
Utilizzato sin dalle sue origini come mezzo per interrogare il binarismo di genere attaccando la presunta immutabilità della società eteronormativa patriarcale, il drag è riuscito a uscire, grazie alla sincerità di molte/i artiste/i e al carisma delle loro interpretazioni, dalle mura delle ballroom imponendosi a livello planetario. L’elegante e androgina Sasha Velour, le alternative e gender fluid Yvie Oddly e Sharon Needles, o ancora la giunonica Bob the Drag Queen (tutte ex regine di RuPaul), senza dimenticare la britannica Juno Birch e il suo universo surreale tra camp, kitsch, alieni e Muppet Show o ancora il/la regina della techno queer Lewis G. Burton e il mito del drag berlinese Pansy sono solo alcuni esempi recenti della potenza di un’arte che merita di brillare di luce propria.
Oltre che nei club di mezzo mondo il drag è riuscito a imporsi anche sulle scene teatrali e nelle gallerie d’arte grazie a personalità innovative e sovversive quali l’artista bulgaro Ivo Dimchev che si metamorfizza su scena interpretando personaggi volutamente ambigui in transizione perenne, o Arca, la super diva della musica elettronica made in Venezuela, o ancora, più vicino alle nostre latitudini il performer bulgaro ma losannese d’adozione Krassen Krastev che utilizza i codici propri al drag e al cabaret per rendere visibile la fabbricazione sociale dei corpi e dei generi, o ancora Lukas Beyeler che grazie ai suoi body iper avvolgenti offre un’altra rappresentazione della così detta «mascolinità», senza dimenticare il performer Nils Amadeus Lange che utilizza il proprio corpo come mezzo per decostruire le convenzioni, i modelli sociali e gli stereotipi di genere o ancora l’icona del drag zurighese Evalyn Eatdith e il collettivo ginevrino GeneVegas.
Insomma, che si esprima nell’oscurità dei club underground o sotto i riflettori degli studi televisivi il drag non ha perso nulla della sua forza sovversiva e questo è un miracolo che accogliamo con devota riconoscenza.