Quella lettera, 50 anni dopo

Attraverso le numerose lettere di ammiratori scritte a Gigliola Cinquetti, in «Non ho l’età» il regista ticinese Olmo Cerri racconta quattro storie di migrazione
/ 08.05.2017
di Daniela Delmenico

Carmela, don Gregorio, Lorella, Maria e Gabriella. Questi sono i nomi dei protagonisti del documentario di Olmo Cerri intitolato Non ho l’età, presentato in prima mondiale lo scorso 22 aprile al festival Visions du Réel di Nyon. Il documentario, prodotto da Amka Film, e coprodotto da RSI, REC e Tempesta, ripercorre le storie di emigrazione di queste persone, facendone rivivere le difficoltà, ma anche i successi. Il titolo del documentario rimanda però a un’altra protagonista, presente come sottofondo di tutto il film, la cantante veronese Gigliola Cinquetti che, nel 1964 divenne famosa vincendo il festival di Sanremo appunto con la canzone Non ho l’età.

Abbiamo incontrato il regista, Olmo Cerri, che ci ha guidati in questo intreccio e ci ha raccontato le vicende che hanno portato alla realizzazione del documentario. 

«Gigliola Cinquetti», spiega il regista, «è stata il punto di partenza, la molla narrativa che ci ha permesso di raccontare queste storie. Il tutto infatti è nato da un dossier pubblicato sul sito dell’Associazione ticinese degli insegnanti di storia che parlava di un fondo di lettere, inviate alla Cinquetti dai fan negli anni 60 e 70, tra le quali ve n’erano molte scritte da persone che erano emigrate in Svizzera per lavorare. È partito tutto da lì». 

Gigliola Cinquetti, sebbene dia lo slancio a tutto il film, è in fondo solo un pretesto per raccontare storie di emigrazione che vedono coinvolto il nostro Paese

Lettere di migranti inviate a una cantante, una tipologia di documenti che ha da subito attirato la curiosità di Olmo Cerri e di Simona Casonato, cosceneggiatrice: «quattro anni or sono ci siamo recati per la prima volta a Trento, all’Archivio della scrittura popolare dove queste lettere sono conservate, e abbiamo cominciato le nostre ricerche. Tra le migliaia di scritti abbiamo selezionato quelli il cui materiale narrativo ci sembrava maggiormente interessante in relazione alle vicende di emigrazione». 

Da quel momento in poi è partita una ricerca complessa, per tentare di rintracciare i mittenti: «siamo partiti dai pochi indizi presenti sulle lettere o sulle buste, come gli indirizzi dell’epoca o il luogo di lavoro, e abbiamo fatto centinaia di telefonate: ovviamente moltissime persone si erano trasferite, le donne spesso si erano sposate e avevano cambiato cognome, e ancora siamo incappati in casi di omonimia. Alla fine siamo riusciti a rintracciare cinque o sei persone, e tra queste abbiamo selezionato quattro storie, che sono quelle raccontate nel film». 

Quattro storie che hanno in comune l’immigrazione in Svizzera, ma che sono anche molto diverse tra di loro, e che permettono quindi di mostrare tutte le sfaccettature di questo fenomeno. Carmela, all’epoca in cui scrisse alla Cinquetti, era una ragazzina che aveva seguito, clandestinamente, i genitori in Svizzera. Ora, nonostante torni volentieri in Calabria, vive a Bienne, che considera ormai la sua casa: è il luogo in cui ha per molti anni gestito la sua attività, dove sono nati, cresciuti e dove hanno studiato i suoi figli. Don Gregorio, che all’epoca della lettera studiava teologia a Coira, è invece tornato in Calabria. Ricorda però con affetto gli anni passati in Svizzera, anche se non è mancata qualche difficoltà, legata in particolare all’essere un prete straniero. L’integrazione, con un po’ di pazienza, è però arrivata, e ora, quando don Gregorio torna in Svizzera, i suoi ex parrocchiani lo accolgono con grande calore.

Lorella racconta la storia dei suoi genitori, che, senza permesso, avevano dovuto lasciare Locarno, dove lavoravano, e andare a vivere a Piaggio Valmara, facendo, quotidianamente e per molti anni, i frontalieri. Infine il film ripercorre, attraverso la figlia Gabriella, la storia di Maria che all’epoca in cui scrisse a Gigliola Cinquetti si trovava a Glattbrugg ma desiderava tornare al paese, in provincia di Pavia e chiedeva alla Cinquetti un aiuto per aprire un’attività, ma che, una volta tornata in Italia con la famiglia, si era resa conto che il suo paese era ormai la Svizzera e così aveva deciso di ritornare. 

Il documentario è quindi un viaggio, nel tempo ma anche nello spazio, e ripercorre i luoghi che hanno segnato le storie dei quattro protagonisti, e che permettono di risvegliare la memoria e di ritrovare parti del proprio passato.

«La gioia di queste persone nel prendere tra le mani una lettera scritta oltre mezzo secolo fa, di cui si ricordavano perfettamente, mostra come questi scritti, e il loro destinatario, fossero emotivamente importanti per queste persone», spiega Olmo Cerri. Oltre alla gioia nel ricordare qualcosa del proprio passato però, ritrovarsi tra le mani queste lettere ha voluto dire anche dover rielaborare momenti difficili della propria vita, fare i conti con un passato di povertà e di difficoltà. «Questo lavoro di rielaborazione è stato però utile anche per i protagonisti del documentario: si sono resi conto in maniera oggettiva di non essere stati gli unici in questa situazione e, in alcuni casi, anche che la loro è stata una storia di successo». 

Il regista si è spesso chiesto a cosa potesse servire, oggi, raccontare queste storie che appartengono al passato. A questo proposito, ricorda alcuni momenti in cui, durante le riprese, è arrivata, inaspettata, la risposta: «per esempio quando eravamo in Calabria a girare, e c’è stato uno sbarco di migranti, o ancora quando durante un viaggio in treno, a Chiasso, abbiamo visto un gruppo di migranti che cercava di proseguire il viaggio verso nord, o ancora con don Gregorio, che dà una mano presso un centro di accoglienza. Abbiamo così capito che lo scopo del documentario doveva anche essere quello di mostrare che l’integrazione può essere lunga e molto difficile, ma che è possibile, e che, alla fine, è un vantaggio per tutti». 

Insomma, un passato che non è poi così passato quello raccontato attraverso le voci di Carmela, don Gregorio, Lorella, Maria e Gabriella. Storie che ci aiutano in un compito difficile, quello di mettersi, almeno per la durata di un film, nei panni degli altri e, in questo modo, a capire le difficoltà, ma soprattutto il valore dell’integrazione.