Non capita di frequente di potere vedere una mostra di Franz Gertsch. Di certo questo dipende anche dal fatto che le sue opere, per essere portate a termine, richiedono un tempo lungo, lunghissimo e quindi la loro circolazione è estremamente contenuta. Consigliamo a chi ne avesse modo, di recarsi a Burgdorf, a pochi chilometri dalla capitale, e visitare il Franz Gertsch Museum, uno di quei luoghi che ogni artista sognerebbe di avere a propria disposizione.
Lo spazio ha una storia davvero singolare: nasce per volontà dell’industriale farmaceutico Willy Michel che, nei primi anni Duemila, decide non solo di fondare un museo dedicato a Gertsch nel proprio paese natale, ma di finanziarne interamente anche la gestione. La maggior parte dello spazio è dedicato all’artista svizzero – nato nel 1930 a Mörigen, a meno di cinquanta chilometri da Burgdorf, e ancora oggi residente nel Canton Berna – con un allestimento della collezione permanente che si rinnova due volte all’anno, grazie all’attivo coinvolgimento dell’autore, oltre che con una programmazione di mostre temporanee dedicate ad altri artisti.
Un’altra possibilità per conoscere meglio questo pittore è visitare la mostra a lui dedicata dalla Galleria Monica De Cardenas – insieme ad altri due artisti, Alex Katz e Billy Childish – nella sua sede engadinese, a Zuoz, fino al 30 marzo. Forse chi la visiterà potrebbe rimanere sorpreso nel trovarsi di fronte delle xilografie monocrome, raffiguranti studi di botanica o lo scorcio di una foresta innevata. Gertsch è infatti molto noto per i ritratti o le scene di vita pulsante, che sembrano fermare per un istante il fluire del tempo. Questa sensazione è accentuata dal contrasto sorprendente fra la pittura iperrealista e i soggetti stravaganti, fino quasi a sconcertare lo spettatore. Penso ai ritratti della cantante Patti Smith, alle tele dedicate all’artista Luciano Castelli e al suo entourage di personaggi eccentrici, a tutte quelle figure tratte dalla scena artistica e hippie degli anni Settanta. Harald Szeemann si appassionò al punto a quelle opere, che invitò Gertsch ad esporre a Documenta nel 1972, aprendogli così la strada verso la notorietà.
Ma una cesura netta separa quella stagione da tutta la produzione degli ultimi decenni. Come si diceva, le opere presentate a Zuoz, così come tutta l’ultima produzione, è invece incentrata su tutt’altro. Uno sguardo significativo sui nuovi temi era stato offerto nella retrospettiva del 2011 al Kunsthaus di Zurigo, organizzata per celebrare la conclusione del ciclo delle sue Quattro stagioni, la cui realizzazione è durata quattro anni.
Sì, perché ciò che accomuna ogni fase della produzione di Gertsch è la sua tecnica meticolosa e il trattamento accurato del soggetto, con un approccio che affonda le proprie radici nei saperi della scuola rinascimentale.
Nella mostra di Zuoz è l’uso della xilografia – l’incisione di tavole lignee che vengono poi impiegate per riprodurre il soggetto su carta – ad attirare l’attenzione di coloro che conoscono il percorso artistico di Gertsch. La gallerista Monica De Cardenas spiega; «Egli reinventa questa tecnica. Usa la xilografia in maniera monocroma, con dimensioni fuori dalla media e con tecnica iperrealista, definendone quindi una versione del tutto nuova e mai sperimentata prima». I materiali sono scelti con la massima attenzione, il colore desiderato è ottenuto direttamente dai pigmenti, proprio come si faceva in passato, e le carte per la stampa sono scelte dalla produzione artigianale giapponese.
È l’artista stesso a spiegare meglio questa ed altre questioni nell’intervista che segue.
Signor Gertsch, potrebbe spiegare la tecnica utilizzata per realizzare le opere esposte nella mostra in corso a Zuoz? Quando ha iniziato a utilizzare questo medium?
Dopo aver dipinto – fra il 1980 e il 1984 – sei ritratti di donne che presentavano una forte presenza vitale, ho sentito la necessità di schermare i volti attraverso una nuova tecnica. Ho scelto allora il medium meno appropriato, la xilografia, per ottenere una transizione graduale dal chiaro allo scuro. Per fare ciò ho dovuto reinventare la xilografia. Dopo molti tentativi, ho trovato la soluzione: intagliare, per mezzo di una sgorbia, la tavola lignea dipinta di blu scuro. Dopo molti mesi, i punti luminosi, proprio come stelle in cielo, hanno determinato un disegno fatto di luce, rappresentante il volto dell’inverno. Ho realizzato così un antico sogno: unire un’immagine realistica ed uno spazio monocromo.
Molte delle sue opere sono ritratti. Cosa la conduce alla scelta del soggetto?
Dal 1989 sono stati realizzati nove ritratti di giovani donne (dipinti) e quattro xilografie. L’incontro con le modelle è una storia a sé, ma si è trattato di felici coincidenze, che mi hanno permesso di realizzare le mie visioni.
A Burgdorf un museo è interamente dedicato al suo lavoro. Ci può dire qualcosa sul suo coinvolgimento?
Solo questo, a proposito di Burgdorf: i begli spazi del museo mi permettono di valorizzare il carattere ambientale dei miei quadri. Ogni sei mesi c’è un cambio di allestimento, così posso configurare un nuovo ambiente con dipinti e xilografie dalla collezione e anche con opere appena concluse.
Come è arrivato a dipingere le Quattro stagioni? Si tratta di un soggetto complesso sia per il grande formato, che per il soggetto. È stato in qualche modo influenzato da qualche autore del passato?
Pur essendo rimasto molto affascinato a ventun anni dalle Quattro stagioni (dipinte nel 1565 da Pieter Bruegel il Vecchio, ndr) al Kunsthistorisches Museum di Vienna, non furono questi dipinti, nel 2007, ad ispirarmi per la mia versione delle quattro stagioni. È stato piuttosto il nostro piccolo bosco, che dista ottanta metri da casa e dove passeggio di frequente, osservando attorno a me con lo sguardo del pittore. Oggi mi capita di camminare attraverso quella piccola foresta con un sentimento di liberazione.