Sono furbe, le parole. Sembrano riservate, tutte votate al compito per cui sono state create, ossia comunicare. Lo fanno con dedizione, che siano sostantivi, congiunzioni, verbi o avverbi; lo fanno in sordina, lasciando al loro significato, al contesto e a volte al tono della voce il compito di dare colore e umore al messaggio. In realtà, molte di esse – alla chetichella – sanno fare un gran baccano.
Facciamo qualche esempio: rimbombo, gargarismi, ticchettio, ronzio, squittire, ruggire, ululare. State leggendo le parole, ma nel contempo è come se le vostre orecchie seguissero gli occhi e percepissero, senza possibilità di malintesi, il suono a esse associato. In linguistica questo scherzetto si definisce onomatopea: si tratta di una figura retorica con cui una parola riproduce o suggerisce acusticamente il soggetto o l’azione. In sostanza, la parola fa il verso a ciò che rappresenta.
Non tutte le onomatopee sono chiassose: ce ne sono di molto discrete, come fruscio o cinguettio. Quanto elencato finora è definito onomatopea secondaria, o artificiale: una parola a tutti gli effetti che porta con sé un particolare significato. Naturalmente ci sono anche le onomatopee primarie, quelle prive di significato ma che evocano un suono: sono ad esempio quelle che ci permettono di lamentarci per il freddo con un lungo brrrr sapendo che finiremo col farci scombussolare da una serie di etciù, oppure quelle che con un sinistro miao permettono al gatto di zittire il canarino che fa cip cip.
L’uso delle onomatopee è frequente e non solo in italiano. Per quanto riguarda la lingua di Dante, molti esempi sono anche entrati nelle antologie. Nel Futurismo di Marinetti e Palazzeschi la tecnica ha un ruolo principe diventando forse la cifra stilistica più frequente del movimento. Poi naturalmente c’è la poesia, con le sue giravolte intrise di sensazioni: come non citare ad esempio Giovanni Pascoli, che dell’onomatopea fa «un uso ampio e ossessivo» (come spiega Giulio Ferroni nella sua Storia della letteratura italiana). Vien poi da citare, come esempio straniero, Anthony Burgess e il violento NADSAT, il gergo (misto russo e inglese) utilizzato dagli scapestrati giovani protagonisti di A Clockwork Orange (massima stima per chi quel romanzo l’ha tradotto in altre lingue, immaginiamo non senza difficoltà e notti insonni): in quel mondo immaginato riprodotto poi da Stanley Kubrick in Arancia Meccanica, il verbo glutare sta per il classico bere, e pare di sentirlo quel «glu glu glu» che placa la sete.
Ecco giunto il momento (per associazione di idee) di confessare quale sia la mia onomatopea preferita: scusate, ma è il genuino gnam gnam, espressione perfetta della soddisfazione, del piacere, del godimento di gustarsi con avidità un piatto di penne all’amatriciana. Mi dispiace per gli anglofoni, che in casi simili usano yum yum: perdonate, ma non è la stessa cosa, non esprime lo stesso grado di golosità, all’infinita potenza.
Eppure all’inglese dobbiamo tutta quella marea di onomatopee che fanno da colonna sonora ai fumetti: come rinunciare a bang, gulp, sniff, sob e all’amato splash? Massimo rispetto per Giovanni Pascoli, tuttavia anche il mondo delle strisce ha il suo perché.
Grazie a chi ha seguito fino in fondo questo breve viaggio nella lingua che suona. Perché questa è l’anima meno evidente delle parole, quella sfumatura che sfugge ai più distratti. Una lingua non è solo un mezzo, è un’esperienza dei sensi.