I bambini di Bad Sachsa

L’iniziativa «Buchenwald-Kinder» non fu isolata. Nel 1947 il pediatra e colonnello bernese Albert von Erlach, medico della Croce Rossa Internazionale per la quale era delegato alle visite dei prigionieri inglesi nei lager nazisti, invitò in Svizzera i «bambini di Bad Sachsa». Fra questi vi era il professor Friedrich-Wilhelm von Hase, che dopo la guerra trascorse lunghi periodi in Svizzera, ospitato dalla famiglia von Erlach di Muri. Potete leggere l'intervista al link.


Quanto costa la libertà?

La fortunata serie di sei puntate "Il prezzo della pace" apre un dibattito interessante: quale fu la posizione della Svizzera dopo la Seconda guerra mondiale?
/ 23.11.2020
di Simona Sala

Quanto costa la libertà? Forse è questa la domanda, la forza motrice che sta dietro a una delle più grandi produzioni mai realizzate dalla televisione svizzera in collaborazione con Arte. Quando, nel periodo postbellico, alla Svizzera riuscì una brillante ripresa economica coniugata a un repulisti della propria immagine grazie alle iniziative umanitarie, si poté finalmente cominciare a guardare avanti, nel nome della libertà ritrovata.
Ma la Svizzera pagò un prezzo morale, per quei traguardi?

Nella serie Frieden – Il prezzo della pace, diretta da Mike Schaerer (Lina, Tatort) su scenografia di Petra Volpe (L’ordine divino), che ha lavorato al progetto da 8 milioni di franchi per nove anni, si intrecciano le storie dell’imminente dopoguerra. E ciò in una Svizzera che si lasciava vieppiù alle spalle la propria vocazione prettamente rurale, e cominciava a definire i contorni del Paese che conosciamo oggi.

Johann (Max Hubacher, Vite rubate) e Egon (Dimitri Stapfer) sono fratelli, il primo ha sposato la ricca Klara (Annina Walt), il cui padre possiede un’azienda tessile che presto gli affiderà, mentre il secondo, devastato dall’esperienza militare al confine ticinese e affetto da quello che oggi chiameremmo distress post traumatico, dà la caccia ai nazisti rifugiatisi in Svizzera con la connivenza di politici e industriali locali. Sullo sfondo, la vicenda vera e propria, quella che rende possibile il racconto di tutte le altre e che fa da cartina da tornasole per la statura morale dei protagonisti della serie, girata con una grazia straordinaria, un’attenzione scenografica fuori del comune, e una prestazione attoriale di livello altissimo.

Nel 1946, 370 giovani ebrei sopravvissuti a Buchenwald furono invitati dalla Croce Rossa (che un po’ voleva aiutarli a risollevarsi, e un po’ voleva  ridare lustro all’immagine della Svizzera presso gli Alleati) a trascorrere un periodo sulla Zugerberg, nell’imponente istituto Felsenegg. Dal treno però, non scesero 370 bambini come concordato, ma giovani maschi tra i 16 anni e la ventina (nella serie uno dei ragazzi di Buchenwald spiega: «Non sono arrivati i bambini sotto i dodici anni, perché quelli venivano uccisi subito»).

I ragazzi, traumatizzati e denutriti, furono accettati ugualmente, sebbene la serie sottilmente denunci le condizioni paramilitari elvetiche. All’interno di Felsenegg si creò una scissione, con le rigide regole dei rappresentati della Croce Rossa (allora ancora legata alla Confederazione e dunque meno libera nelle proprie decisioni) contrapposte alla sensibilità di un gruppo di donne tenaci, lontane dalle logiche burocratiche e diplomatiche, e soprattutto umane. Quelle donne avevano capito che non bastava dare ordini ai ragazzi e chiuderli in un nuovo recinto, ma che ci volevano ascolto, cibo e calore.

Anche Charlotte Weber, classe 1912, attivista, insegnante e giornalista, faceva parte di quel gruppo, anzi, ne era la coraggiosa portavoce, come testimoniano le immagini contenute nel bel documentario di accompagnamento alla serie, I bambini di Buchenwald, e le sue memorie, Gegen den Strom der Finsternis. Als Betreuerin in Schweizer Flüchtlingsheimen 1942–1945 (Chronos, 1997). È proprio sulle sue memorie sapientemente mescolate alla ricerca di Madeleine Lerf, Buchenwaldkinder, eine Schweizer Hilfsaktion (Chronos, 2009), che si basa la serie, accolta con ovazioni da parte di storici e critici dall’altra parte del Gottardo, dove ha scatenato accesi dibattiti, contrariamente alla tiepida accoglienza riservatale qui.

In Il prezzo della pace lo spirito di Charlotte Weber è rappresentato dalla dolce e ricca Klara, interpretata da Annina Walt, che non riesce ad accettare la tolleranza dei ricchi genitori verso i nazisti, e proprio tra gli ebrei dagli occhi tristi, reietti e senza nulla da offrirle, troverà l’umanità capace di dare un senso alla sua vita. E mentre lei si danna per migliorare le condizioni dei profughi, suo marito Johann capisce certe regole legate ai capitali, ma soprattutto, come non sia sempre necessario fare domande sulla loro provenienza. Glielo spiega bene lo zio acquisito Carl Frei, in affari con pezzi grossi della politica e nazisti sotto copertura, interpretato da uno Stefan Kurt a dir poco strepitoso.

Sulla «Sonntagszeitung» del 15 novembre Rico Bandle rimproverava alla SRF di essere troppo inclemente con la politica postbellica del nostro Paese, non concedendole sconti né attenuanti. Forse ha ragione, soprattutto davanti ai personaggi di Klara ed Egon, che fanno la differenza, lei con le sue lacrime impotenti di fronte all’orrore del nazismo, lui in balia di alcol e insonnia, come testimoniano quelle occhiaie definite «le più belle della Svizzera».

Certamente quest’operazione ha spalancato le porte sul periodo postbellico elvetico, ancora poco esplorato e molto sfaccettato. Sarà impossibile anche questa volta dare un verdetto definitivo e unanime sulla Svizzera, ma può anche darsi che sia giusto così perché, come dimostra Il prezzo della pace, ogni popolo è fatto di persone, e queste sono fortunatamente diverse tra di loro.