Quando una madre vuole la verità

Lost Girls, una scomparsa inquietante
/ 31.08.2020
di Simona Sala

La vicenda ricorda quella narrata in Tre manifesti a Ebbing. Missouri (e chissà quante altre, anche in cronache più vicine a noi) con la brava Frances McDormand: di nuovo una madre che cerca la propria figlia, di nuovo una madre che si scontra con le autorità, ree di non dare la dovuta importanza alla scomparsa, con tutta probabilità di natura criminale, di una giovane donna.

Mari Gilbert (interpretata da un’autentica e intensa Amy Ryan) forse non è propriamente una madre esemplare, si arrabatta come può per rimanere a galla economicamente e non disdegna, più spesso di quanto in realtà vorrebbe, l’aiuto finanziario della figlia maggiore Shannan, nonostante le fonti economiche di quest’ultima non siano del tutto chiare. Un giorno però la figlia non si presenta come accordato per cena e scompare. Mari capisce subito che qualcosa non torna, ma la polizia non sembra dello stesso avviso, anche perché, in fondo, la ragazza non era altro che una miserabile squillo. Quantité négligeable, insomma.

La madre non molla, però, perché come giustamente afferma, ogni ragazza scomparsa non può essere definita solamente per le proprie attività più o meno lecite, ma è prima di tutto figlia, e forse anche sorella e madre. E dunque meritevole di essere cercata alla stregua di qualsiasi cittadino. Grazie a tenacia e ostinazione, e con il supporto di altre famiglie, sottoposte allo stesso supplizio di indifferenza da parte delle autorità, la donna (che è esistita realmente, poiché il film si basa su una storia vera) riesce a fare pressioni a sufficienza affinché si inizino le ricerche della scomparsa, ma in modo serio.

Il risultato è agghiacciante: sulla spiaggia di Gilgo Beach, Long Island, le ruspe rinvengono una serie di resti appartenuti ad altre ragazze scomparse, tutte attive nel campo della prostituzione. Un grosso caso che nel 2010 scosse gli Stati Uniti, di fronte al quale la polizia non poteva più fare finta di nulla, e cui si aggiunsero con il tempo altri cadaveri rinvenuti in spiaggia, tutti imputabili allo stesso assassino, denominato il killer di Long Island, e fino ad oggi a piede libero.

Il cinema da sempre si china, attingendone a piene mani, sulla cronaca, specie se nera. Ma il pregio di questo film è di mettere in luce (e ciò viene fatto attraverso una scelta di colori scuri, smorzati) l’angoscia che contrassegna ogni attesa non giustificata e la timida speranza che corre sempre su un doppio filo, poiché da una parte ogni parente desidera la verità, al contempo rifiutandola. Il risultato, sullo sfondo di un serial killer che lavora in grande stile, è un film intimo e delicato, meritevole di non lasciarsi andare a smancerie e di lavorare piuttosto sulle sfumature e sulle ambiguità, come quelle magnificamente interpretate dal bravo Gabriel Byrne, per l’occasione ispettore di polizia poco decisionista.