«Non si trattava di arrivare a governare New York. La città era già nostra». Hanno soprannomi come Fat Tony o Big Paulie, facce e modi che sembrano usciti da un film di Scorsese. Ma sono tutt’altro che personaggi di finzione. Al contrario, quegli stereotipi divenuti familiari attraverso infiniti gangster movie è stata gente come loro a crearli: sono gli originali. Negli anni Settanta e Ottanta New York era governata con ferocia, violenza e astuzia da cinque grandi famiglie, i Bonanno, i Lucchese, i Colombo, i Genovese e i Gambino, ognuna con boss, capitani e soldati. Erano loro a spartirsi il potere e il denaro in una metropoli ribattezzata ai tempi la «città della paura».
Lo Stato assisteva impotente. Qualche pesce piccolo ogni tanto finiva nella rete, ma niente di più. Almeno fino a quando un manipolo di uomini e donne decisi trovò lo strumento giusto per scardinare questo impero criminale. Attraverso filmati d’archivio, nastri di reali intercettazioni, ricostruzioni e interviste a chi quel periodo l’ha vissuto – dalla parte della legge o da quella del crimine – Fear City: New York contro la mafia racconta questa epopea, fino al grande processo che nel 1986 decapitò la cosiddetta «commissione», la testa del crimine organizzato di New York.
A firmare per Netflix questa nuova miniserie documentaristica true crime – tre puntate di cinquanta minuti – è Sam Hobkinson, autore fra l’altro di The Kleptokrats e The Hunt for the Boston Bombers.
Per gli agenti dell’FBI e per procuratori come un giovane Rudy Giuliani, che era già un duro ben prima di diventare il sindaco della tolleranza zero, non fu un lavoro facile.
«La malavita era organizzata. Noi non lo eravamo affatto, non avevamo né strategia né piano d’azione», racconta uno dei protagonisti. A cambiare le cose fu una legge fino ad allora poco nota. Chiamata RICO (Racketeer Influenced and Corrupt Organizations Act), permetteva di condannare gli affiliati a un’organizzazione criminale anche per reati ai quali non avevano preso parte attiva. Grazie alla RICO un boss avrebbe potuto essere condannato per aver ordinato un omicidio o una frode che non aveva direttamente commesso. Avrebbe: perché prima c’era da provare che facesse parte di un’organizzazione criminale e che tale organizzazione esistesse.
Quelle organizzazioni esistevano eccome. Controllavano estorsioni e traffico di droga (benché la droga teoricamente fosse un tabù per i malavitosi della vecchia scuola). Controllavano i sindacati, le potentissime «union», da quella dei trasportatori a quella dei lavoratori dell’edilizia. Gli affari più grossi, roba da miliardi, erano legati proprio al boom edilizio della New York di allora. Ogni lavoro del costo superiore ai due milioni di dollari passava attraverso le ditte controllate dalla mafia. Se qualcuno si metteva di traverso volava dal 56. piano di un palazzo in costruzione. Ci furono vittime ed eroi segreti in questa guerra. E anche armi decisive: le microspie. Rischiando grosso, i tecnici dell’FBI ne piazzarono a decine nelle case e nelle auto dei gangster, a tutti i livelli, ottenendo con le registrazioni le prove di cui avevano bisogno.
La tensione riverbera La conversazione di Coppola. Le immagini d’epoca così come i reenactment hanno un look vintage che cattura immediatamente. Anche la colonna sonora – a partire dalla sigla Hard Times di Baby Huey – cala nella giusta atmosfera. Fear City è la storia di una battaglia vinta. Dopo le condanne ai vecchi boss però, il crimine organizzato tornò con altre forme e altri volti. Il cancro della mafia è duro da estirpare e si insinua dappertutto. Lo abbiamo visto ultimamente sulle pagine dei giornali perfino in un tranquillo Paese come il nostro. Ma tenere alta la guardia e continuare a combattere porta a grandi risultati.
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Quando New York era della mafia
La docuserie Fear City racconta la lotta dell’FBI contro il crimine organizzato
/ 07.09.2020
di Fabrizio Coli
di Fabrizio Coli